Rodrigo Duterte, il punisher di Manila

Filippine: Da mesi il Paese si è trasformato in un campo di battaglia fatto di processi ed esecuzioni sommarie nel contesto di una campagna contro la droga scatenata dal nuovo presidente. La sua esuberanza sta inoltre provocando una crisi con Washington
/ 10.10.2016
di Beniamino Natale

Melvin Odicta detto «il drago», uno degli uomini più ricchi delle provincia di Iloilo, nelle Filippine centrali, è stato colpito mentre scendeva, nel porto di Aklan, dal traghetto Sant’Antonio da Padova, il 29 agosto scorso. Sua moglie Meriam era appena stata abbattuta dallo stesso sicario, probabilmente anche lui un passeggero del traghetto, che proveniva da Batangas. Uno dei suoi avvocati, Gualberto Cataluna, che si trovava all’ uscita del porto, ha detto che «il drago» l’aveva chiamato al cellulare dicendo che Meriam era stata uccisa e che lui era ferito ad una gamba. L’avvocato ha aggiunto di aver visto il suo cliente, vivo e ammanettato, che veniva caricato su una macchina della polizia. Gli agenti hanno portato lui e Meriam al più vicino ospedale, dove entrambi sono arrivati morti. Un portavoce della polizia ha risposto scandalizzato alla domanda di un giornalista locale: «Perché mai avremmo dovuto ammanettarlo? Era morto…». 

Il «drago» e sua moglie sono tra le circa tremila vittime della «guerra alla droga» scatenata dal nuovo presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte. «Rodry», come lo chiamano i media filippini, è certamente un personaggio «colorito», secondo la definizione del presidente americano Barack Obama, uno dei due capi di Stato stranieri – l’ altro è il capo della Chiesa Cattolica, Papa Francesco – che sono stati definiti «quel figlio di puttana» da Duterte. Il presidente filippino, detto «the punisher» – il castigatore – è un uomo del popolo, che usa poche parole di un inglese approssimativo nei discorsi tenuti in «filippino» e che ama riferimenti sessuali a vagine «che puzzano» e a stupri, che sembra consideri attività ammirevoli. Una delle sue affermazioni più note, infatti, l’ha fatta parlando dello stupro di una missionaria australiana avvenuto nel 1989 a Davao: «Il sindaco – cioè lui stesso – avrebbe dovuto essere il primo», ha sostenuto dopo aver spiegato che si trattava di una donna molto attraente.

A Davao, la capitale della provincia meridionale di Mindanao, è stato infatti sindaco per 22 anni. Secondo i suoi sostenitori «the punisher» avrebbe trasformato la città da capitale del crimine nel luogo «più sicuro delle Filippine». Un’affermazione dubbia dato che è proprio a Mindanao e nella stessa Davao che sono ancora attive bande di sopravvissuti del gruppo integralista islamico Abu Sayyaf, dedite ad attività criminali come i rapimenti senza più nessuna pretesa di motivazioni politiche. 

«Fate il vostro dovere, e se nel processo uccidete mille persone perché fate il vostro dovere, io vi proteggerò», ha affermato ad esempio pochi giorni dopo essere stato eletto davanti ad una platea di poliziotti. Una licenza di uccidere che è stata presa alla lettera: mille piccoli criminali sono morti nei pochi mesi nei quali Duterte è stato al potere in «scontri» con gli agenti; le altre circa duemila vittime sono cadute sotto i colpi di sicari senza volto, come Melvin Odicta. I loro decessi vengono classificati come «deaths under investigation» (Dui), «morti sulle quali si indaga».

Ad opporsi alla campagna di Duterte nelle Filippine sono in pochi. Tra questi la Chiesa cattolica. Nelle omelie i preti condannano le esecuzioni extragiudiziali ma invitano anche a pregare per le forze dell’ordine. La senatrice Leila de Lima, che critica apertamente Duterte e chiede che vengano condotte delle inchieste neutrali sulle «morti misteriose», è stata lei stessa accusata dal presidente di essere compromessa col traffico di droga, e alcuni pensano che potrebbe essere assassinata. Con Duterte, secondo i suoi critici, le Filippine rischiano di tornare ai tempi della dittatura. Non per niente è un ammiratore di Ferdinando Marcos, il dittatore abbattuto nel 1985 dal movimento popolare che portò all’instaurazione di un sistema democratico. 

Non solo. La sua esuberanza ha provocato una crisi nelle relazioni con gli Usa, che sono stati negli ultimi decenni un alleato di ferro di Manila. Obama ha cancellato un incontro con «Rodry» che si sarebbe dovuto svolgere a Vientiane, in Laos, all’inizio di settembre. Nei giorni seguenti, membri dell’entourage del presidente filippino hanno rilasciato una serie di dichiarazioni nelle quali hanno cercato di spiegare che il «figlio di puttana» non era rivolto direttamente a Obama, ma che si trattava di una sorta di intercalare, come altri potrebbero dire «quant’è vero Dio», o altre frasi fatte del genere. Il problema, ammoniscono gli osservatori, non è solo che un presidente non dovrebbe usare un linguaggio da osteria. È la sua politica regionale ad essere tutt’altro che chiara. 

Le Filippine sono impegnate in un duro scontro diplomatico con la Cina sulle frontiere marittime nel Mar della Cina Merdionale, che Pechino reclama quasi interamente. Negli anni scorsi la Cina ha costruito una serie di installazioni militari sulla terra «reclamata» da una serie di minuscoli isolotti nell’arcipelago delle Spratly, alcuni dei quali Manila considera parte del suo territorio. In luglio la Corte di Arbitrato Internazionale dell’Aja ha accolto un ricorso del precedente governo filippino – quello guidato da Benigno Aquino III – negando qualsiasi base di legittimità alle pretese cinesi. Prima di essere eletto, Duterte aveva accennato alla possibilità di trattative bilaterali con Pechino: si tratterebbe di un cedimento alla Cina, che sentendosi la più forte nella regione chiede trattative a due con gli altri Paesi, mentre i più risoluti avversari di Pechino – come il Vietnam – cercano di portare in sedi internazionali e multilaterali le dispute territoriali nel Mar della Cina.

Oltre a Filippine e Vietnam, hanno in corso dispute con Pechino Malaysia, Brunei, Indonesia e, nel Mar della Cina Orientale, il Giappone. Le aperture di Duterte sono state respinte da Pechino, che ha messo come condizione a colloqui bilaterali la rinuncia delle Filippine ad usare il verdetto della Corte di Arbitrato. Manila è ora paralizzata dalle sue stesse mosse: non può giocare la «carta cinese» per indurre Obama a non sollevare, come aveva minacciato, il problema dei diritti umani e non può avvalersi della protezione di Washington nelle discussioni col «grande fratello» cinese. Manila e Washington stanno ora faticosamente cercando di ricostruire le relazioni con l’ aiuto del Giappone, alleato di entrambe. 

Duterte non è il primo governante asiatico a usare la mano pesante contro i trafficanti di droga. Campagne di esecuzioni extragiudiziali sono state condotte nel 2003 in Thailandia e negli anni Ottanta in Indonesia, senza peraltro risolvere il problema. Iran, Arabia Saudita e Cina usano con larghezza la pena di morte per i reati di droga, che esiste anche in Indonesia, Malaysia e Singapore.