La politica estera di Trump in Medio Oriente continua a mietere successi. È una storia sorprendente. Contraddice i pareri degli esperti, o almeno di quegli esperti che appartengono alla «saggezza convenzionale». Rovescia i sintomi d’indebolimento, trasformandoli in vittorie. È una politica del disimpegno, della ritirata graduale, che però ha come complemento una delega a tre pro-consoli: Benjamin Netanyahu in Israele, il principe Muhammed bin Salman in Arabia saudita, il generale al-Sisi in Egitto. Quest’ultimo è stato ricevuto in pompa magna alla Casa Bianca la settimana scorsa. Netanyahu col suo quinto mandato conferma che Trump ha fatto un ottimo investimento puntando tutto su di lui (ambasciata a Gerusalemme, Golan, ecc.). Infine il terribile MbS è sopravvissuto all’assassinio di Kashoggi: i mercati finanziari del mondo intero gli hanno perdonato tutto e corrono a sottoscrivere i bond di Aramco (l’ente petrolifero saudita).
La vicenda più significativa è Israele. Con questo presidente gli Stati Uniti hanno praticamente «subappaltato» la loro politica mediorientale a Netanyahu. Lo hanno assecondato spostando l’ambasciata, avallando tutto ciò che lui fa e dice nei Territori occupati, abbracciando la sua linea dura sul nucleare iraniano. A leggere i grandi media americani – per non parlare degli europei – queste scelte di Trump oltre che dissennate lo avrebbero portato in un vicolo cieco. Ma la rielezione di Netanyahu, sia pure per un soffio, costringe a correggere questa narrazione.
Netanyahu può non piacerci per molte ragioni, però Trump puntando su di lui ha azzeccato il cavallo vincente. A trovarsi in un vicolo cieco è la sinistra americana: all’interno del partito democratico si è aperta una frattura dopo che una neodeputata di religione islamica ha accusato il ceto politico di Washington di vendersi alla lobby filo-israeliana. In quanto alle reazioni di chi grida «Israele non è più una democrazia»: è un copione già visto in altri paesi, un brutto vizio di chi non riesce più a vincere le elezioni e si rinchiude in un’orgogliosa contemplazione della propria superiorità morale.
Dall’Egitto all’Arabia saudita, Trump non è particolarmente innovativo: ha semplicemente rilanciato una tradizione, quella per cui l’America non «interferisce» più di tanto sulla politica interna, la qualità democratica, il rispetto dei diritti umani, finché i regimi alleati sono fedeli e affidabili. Gli uomini forti come MbS e Al-Sisi s’inseriscono in una linea di discendenza antica. In quanto all’Iran, fu Barack Obama a interrompere una continuità, tentando la carta del disgelo. Trump è tornato alla politica delle sanzioni e dell’isolamento, con un escalation continua dei provvedimenti punitivi, incluse le ultime misure che prendono di mira i «guardiani della rivoluzione islamica».
Tutto questo non impedisce che vi sia un oggettivo ridimensionamento dell’influenza americana in Medio Oriente. Affidarsi a dei pro-consoli come Netanyahu, al-Sisi e MbS non è la stessa cosa che agire in prima persona. Ciascuno di quei tre attori ha un’agenda geopolitica locale che può in parte convergere con gli interessi americani, in parte no. Il disimpegno americano però è voluto, rivendicato da Trump. E l’ultimo atto di questa ritirata è in corso in Libia. Un teatro importante, visto che da lì partono i maggiori flussi di profughi e migranti diretti alla sponda settentrionale del Mediterraneo.
«La situazione della sicurezza in Liba diventa sempre più complessa e imprevedibile», dichiara il generale Thomas Waldhauser, capo dello United States Africa Command. Conseguenza? Gli Stati Uniti ritirano il loro minuscolo contingente militare, evacuato via mare una settimana fa. Per l’Italia, per l’Europa, per il Nordafrica e il Medio Oriente, il messaggio è chiaro: benvenuti in un mondo post-americano. La presenza in Libia di soldati Usa e di esperti anti-terrorismo, pur molto ridotta, era l’ultimo residuo di una scelta che fece Obama e di cui lui stesso si era pentito. Trascinato da Nicolas Sarkozy e David Cameron nell’intervento militare per deporre Gheddafi (2011), l’allora presidente fornì all’attacco franco-britannico un supporto soprattutto logistico e di bombardamenti aero-navali.
Se ne pentì in seguito, dopo aver capito che Parigi e Londra si erano lanciate in quell’operazione senza avere un piano serio per il dopo-Gheddafi. Il caos in cui la Libia è sprofondata, è il risultato di quell’intervento militare: Gheddafi non c’è più, ma al suo posto non c’è una democrazia, bensì una guerra per bande, in cui stando agli ultimi sviluppi sembra prevalere il generale Haftar. Dopo una fase utopistica o ingenua in cui aveva appoggiato le rivolte delle primavere arabe credendo che avrebbero spianato la strada alla democrazia, dall’Egitto in poi lo stesso Obama era già tornato alla Realpolitik. In una confessione autocritica, mentre stava lasciando la Casa Bianca, disse che la prima regola della politica estera dovrebbe essere «don’t do shit» (traduzione edulcorata: non fare casini). La Libia, Obama la mise nel novero dei casini che si era lasciato dietro.
Dopo oltre due anni di presidenza Trump ha aggiunto un principio ulteriore: non fare nulla in politica estera se non sia strettamente necessario alla difesa di un interesse strategico minacciato. Siamo in una fase di crescente isolazionismo. Che viene giustificato anche da una rivoluzione negli assetti energetici mondiali. L’America è ormai quasi autosufficiente per il suo fabbisogno di petrolio e gas. La «motivazione energetica» nella politica estera – che fu una delle costanti in Medio Oriente dalla Seconda guerra mondiale in poi – si è praticamente dissolta. Resta dell’eredità neoimperiale solo un fattore-interdizione: gli Stati Uniti rimangono ben presenti militarmente nelle aree petrolifere come il Golfo Persico, perché da quelle forniture è dipendente la Cina, il che la rende vulnerabile.
Ma come si vede nel caso del Venezuela, anche sull’interdizione della penetrazione cinese o russa Trump non è disposto a investire più di tanto. Chi da mesi denuncia le trame di un’invasione militare americana in Venezuela è stato smentito: neppure le riserve petrolifere più abbondanti del pianeta smuovono Trump, che ha una vera allergia all’intervento militare. America First, lo ha sempre detto nei comizi (ed è di nuovo in campagna elettorale), vuol dire anche smetterla di sperperare risorse per fare i gendarmi del mondo.
I dietrologi che non riescono a concepire un mondo dove lo Zio Sam si ritira, si eserciteranno a inventare oscure trame americane dietro l’avanzata del generale Haftar. L’ex ufficiale di Gheddafi effettivamente ebbe un passato di legami con la Cia, dopo aver tentato un golpe ed essersi rifugiato in Virginia. Negli ultimi anni però gli Stati Uniti hanno evitato di appoggiarlo; hanno invece sostenuto gli sforzi dell’Onu per una soluzione di governo che unifichi le varie fazioni. Perciò l’Italia ha potuto affermare che la posizione di Washington era più allineata alla sua. Per le sue scorribande, per i suoi finanziamenti, per le sue armi, il generale Haftar si è rivolto di volta in volta alla Francia, alla Russia, all’Egitto, agli Emirati arabi. Anche ora che Haftar sembra lanciato verso la vittoria – o almeno destinato ad avere un’influenza crescente – è singolare il balletto delle alleanze attorno a lui.
La Francia di Emmanuel Macron lo appoggia quanto la Russia di Vladimir Putin. Uno spettacolo sconcertante, se si pensa al proclamato «europeismo» di Macron. La linea ufficiale dell’Unione europea infatti era quella italiana, che spingeva verso una soluzione di accordo tra le fazioni.
La Libia non è l’unico teatro dove si osserva la ritirata americana. Trump si era già affrettato a chiudere quel poco di coinvolgimento americano in Siria, che aveva ereditato da Obama. La nuova Realpolitik isolazionista di Washington prende atto che la Siria è sempre stata un vassallo di Mosca (per la precisione: da quando l’Unione sovietica vi stabilì la sua prima base militare nel 1971), e non vede cosa l’America possa ricavare da una presenza militare. Ora lo stesso disimpegno si sta realizzando in Libia. Delle ricadute nel Mediterraneo, in particolare sulla tragedia dei profughi, questa Amministrazione Usa si disinteressa.
Un proverbio americano dice: «Stai attento a cosa auspichi; i tuoi desideri potrebbero realizzarsi». In Europa un ampio arco di forze – dalla sinistra radicale alle destre putiniane – hanno sempre denunciato le ingerenze americane e desiderato che lo Zio Sam se ne stesse a casa sua. Ora che questo desiderio diventa realtà, fino al punto da logorare le fondamenta dell’Alleanza atlantica, bisogna misurarsi con le conseguenze. La «quasi» Pax Americana fu sempre traballante e precaria, non impedì conflitti sanguinosi in Medio Oriente; fu segnata da errori gravissimi come l’invasione dell’Iraq. Quel che viene dopo, però, è il trionfo del caos.
Altri imperialismi più antichi riaffiorano e si affrontano per ritagliarsi sfere d’influenza: dalle nostalgie coloniali di Parigi all’espansionismo di Mosca, dal sultano ottomano ai sauditi, è lungo l’elenco degli attori che aspirano a riempire i vuoti lasciati dall’America.
Alcuni di questi attori si possono considerare come appartenenti alla sfera d’influenza americana; altri sono nemici dichiarati come l’impero regionale persiano (un altro soggetto antichissimo, oggi governato dal clero sciita); altri ancora sono rivali strategici come Russia e Cina. Ma anche coloro che si dichiarano amici di Washington, sono parte di una frantumazione. Forse solo Henry Kissinger potrebbe intravvedervi il principio di un nuovo ordine fondato sull’equilibrio delle potenze locali: un po’ Pace di Vestfalia un po’ Congresso di Vienna. Dubito che lo stesso Kissinger consideri questo approdo come imminente.