Il 2021 è per l’Africa, considerata nel suo insieme, un importante anno elettorale. Oltre venti Paesi del Continente, da nord a sud, da est a ovest, dal piccolissimo all’enormemente vasto, sono chiamati alle urne per scegliere un nuovo presidente, un nuovo Parlamento o anche solo per rinnovare le Amministrazioni comunali. Un esercizio democratico diffuso che da una parte induce a un certo ottimismo politico, ma desta anche preoccupazione perché molte di queste elezioni appaiono fragili dighe contro le tendenze autoritarie che si affermano in più Paesi.
Sono passati 30 anni da quando, nel celebre discorso pronunciato a La Baule il 20 giugno 1990, l’allora presidente francese François Mitterrand invitò i capi di Stato africani a «compiere con coraggio un passo verso la democratizzazione», indicandone anche gli elementi irrinunciabili: «Sistema rappresentativo, libere elezioni, multipartitismo, libertà di stampa, magistratura indipendente e rifiuto della censura». Il Muro di Berlino era crollato l’anno prima e quelle parole segnarono la fine della Guerra fredda in Africa. Le democrazie occidentali non erano più disposte ad accettare – a favorire – i regimi dittatoriali più efferati purché aderissero al loro campo, contro quello sovietico. Da allora l’evoluzione democratica del Continente è stata indubbia, dal Sudafrica alla Repubblica democratica del Congo, dal Kenya al Senegal. In alcuni (rari) Paesi l’alternanza di maggioranza e opposizione è diventata un fatto acquisito.
Tuttavia forti controtendenze hanno preso ad operare, nel logorante tentativo di favorire le tentazioni autoritarie. La più ricorrente di queste è stata l’introduzione di modifiche costituzionali per aumentare il numero di mandati presidenziali, da 2 a 3 o più. È accaduto un po’ ovunque, dal Camerun al Rwanda, dall’Uganda al Ciad, da Gibuti al Congo Brazzaville. Molti capi di Stato invecchiano al potere e fanno di tutto per non lasciarlo. Il che ci porta a quella che appare la questione più ricorrente su cui sono chiamati a pronunciarsi gli elettori africani. Non si discute tanto di programmi, di modelli di sviluppo, di appartenenze ideologiche o schieramenti politici; quanto del fatto se leader anziani siano disposti a lasciare il campo alle nuove generazioni. La risposta è quasi sempre la stessa: non lo sono affatto.
L’Africa ha un primato: dal punto di vista anagrafico è il Continente più giovane del pianeta. L’età media del suo miliardo e 300 milioni di abitanti non raggiunge i 20 anni, 19,4 per la precisione. Quella della sua classe dirigente è viceversa la più alta. Supera generosamente i 60 anni, anche se negli anni recenti si è un po’ abbassata con l’allontanamento dal potere di leader come lo zimbabweano Mugabe (95 anni), l’algerino Bouteflika (82), l’angolano Dos Santos (76) o il sudanese al Bashir (75). Quella che da noi è la «Generazione Z», i cosiddetti «post Millennials», lì sono il cittadino medio, l’elettore tipo. E quello che a noi può apparire come un arido dato statistico – l’età media – lì costituisce la linfa delle società, una condizione esistenziale che dà alla visione collettiva una straordinaria energia e la proietta verso il futuro.
Lo stesso fenomeno migratorio sarebbe difficile da capire, fatto com’è di incognite, di pericoli mortali, di sradicamento e di incertezza a venire, senza la carica inarrestabile della giovinezza. Così la permanenza al potere dei vecchi e la domanda di cambiamento dei giovani diventano il tema dominante dello scontro politico, facendo delle nuove generazioni gli alfieri della partecipazione democratica. Un’identificazione, quella dei giovani africani con la democrazia, perfettamente sintetizzata nello slogan della vittoriosa rivolta sudanese del 2019: «No more old men in uniform». L’essere avanti con gli anni e il fatto di indossare l’uniforme da generale venivano accomunati nella stessa condanna.
Anche le prime elezioni del 2021, quelle ugandesi, hanno avuto per tema lo scontro giovani contro anziani: purtroppo non sono andate bene. Il presidente Yoweri Museveni, 76 anni, al potere dal 1986, è riuscito a farsi rieleggere per la sesta volta consecutiva. Tra le riforme costituzionali che ha dovuto far approvare perché questo fosse possibile, c’è stata l’abolizione del limite di 75 anni di età per i candidati presidenziali.
Il suo principale avversario era Bobi Wine, 38 anni, cantante diventato uomo politico, molto popolare nei quartieri più poveri di Kampala e considerato un candidato credibile anche da molti osservatori internazionali. Museveni ha usato tutte le leve che il potere metteva a sua disposizione, bloccando l’accesso a Internet nei giorni cruciali della campagna, facendo intervenire le forze dell’ordine per disperdere le manifestazioni dell’opposizione, fino a mettere Bobi Wine agli arresti domiciliari dal giorno del voto fin quando l’Alta Corte ugandese non ne ha ordinato la liberazione.
Vedremo come andranno le cose in altri Paesi dove dei presidenti-padroni si preparano a chiedere la riconferma al potere nel corso di quest’anno. È il caso della Repubblica del Congo, dove il 21 marzo Denis Sassou Nguesso, 77 anni, briga il quarto mandato; del Ciad (6 aprile, sesto mandato per Idriss Déby); di Gibuti (sempre in aprile, quinto mandato per Ismail Omar Guelleh, 73 anni). In tutti e tre i casi non ci sono particolari motivi di ottimismo.
Dei tanti altri appuntamenti alle urne in calendario per il 2021 in Africa, ne segnaliamo tre. Il primo è quello della Somalia, dove la vera sfida è riuscire a tenere effettivamente le elezioni. Già due volte tra gennaio e febbraio la data ha dovuto essere rinviata. Il sistema è davvero complesso, in ragione delle ferite della guerra civile da cui il Paese è ancora convalescente, anzi non è del tutto uscito. I membri di Camera e Senato vengono nominati da collegi elettorali ristretti, nei quali anche i clan hanno un diritto riconosciuto di parola; poi a loro volta dovranno eleggere un presidente. Finora nessun accordo è stato raggiunto e il Parlamento non è riuscito a riunirsi.
In Etiopia le elezioni parlamentari dovrebbero tenersi il 5 giugno. Erano in programma l’anno scorso, ma sono state rinviate causa Covid e questa decisione è stata il casus belli che ha messo la provincia settentrionale del Tigray in rotta di collisione con il Governo federale, fino all’invasione militare ordinata dal premier Abiy Ahmed in novembre. L’Etiopia è un gigante che conta oltre 100 milioni di abitanti e la sua instabilità potrebbe avere conseguenze devastanti per l’intero Corno d’Africa.
Infine il Sudafrica. Qui l’appuntamento sembra di importanza relativa: si tratta di consultazioni amministrative. Ma da sempre valgono un po’ come quelle di Midterm negli Stati uniti: un termometro politico tra due elezioni presidenziali. Con il Paese paralizzato nella morsa di un’epidemia di Coronavirus fuori controllo, sarà un referendum sulla difficile gestione del presidente Cyril Ramaphosa.
Rincorrendo la democrazia
Nel 2021 oltre venti Paesi africani sono chiamati alle urne. Gli anziani si aggrappano al potere nel Continente più giovane del pianeta
/ 15.02.2021
di Pietro Veronese
di Pietro Veronese