Washington vive di nuovo giornate storiche. Il primo presidente che subisce due impeachment (e per due volte viene assolto). Il primo presidente che viene messo in stato di accusa dopo avere concluso il suo mandato. E sullo sfondo l’antefatto: il primo attacco al Campidoglio dalla guerra con gli inglesi del 1812. «Fight!», combattete per me «contro gente cattiva», «mostrate la vostra forza al Congresso». Il video con il fatidico comizio di Donald Trump del 6 gennaio, seguito poco dopo dall’assalto violento dei suoi seguaci, per l’accusa era la pistola fumante, la prova del reato. Il secondo impeachment è stato dominato da quelle immagini. Così Trump è tornato a occupare il centro della scena politica americana. Sia pure da grande assente (non si è lasciato interrogare dal Senato) per una settimana è tornato protagonista, come negli ultimi 4 anni.
Joe Biden è costretto a chiedersi se alla fine non sarà lui a pagare un prezzo politico di questo processo pubblico al suo predecessore. L’accusa era «incitazione alla violenza contro le istituzioni degli Stati Uniti». I fatti erano freschi nella memoria del mondo intero: l’assalto alla sede del Congresso ispirato dalle parole infuocate di un presidente che fino all’ultimo rifiutava di riconoscere la legittimità dell’elezione. Tra le prove dell’accusa c’era l’intero comizio tenuto da Trump ai suoi sostenitori radunati quel mattino davanti alla Casa Bianca, i filmati dell’aggressione alle forze dell’ordine e ai parlamentari, l’irruzione a Capitol Hill, il bilancio di 5 morti, la fuga precipitosa delle massime autorità dello Stato, il bivacco degli assalitori dentro il Congresso.
I democratici erano convinti di avere un obbligo costituzionale, politico e morale: non lasciare impunito un comportamento sovversivo, con cui Trump attentò alla pacifica transizione dei poteri, un precedente pericoloso se dovesse restare senza sanzioni. «Trump non si è mai pentito. Lo rifarebbe, metterebbe in pericolo altre vite umane, se gli consentiamo di ripresentarsi».
Per la difesa, Trump doveva essere protetto dal Primo emendamento e nessuna delle sue parole in quel comizio era un esplicito invito alla violenza. La difesa ha parlato di «teatro politico» che voleva stabilire una presunta connessione tra le parole dell’allora presidente e le azioni «di un piccolo gruppo di criminali». Gli avvocati di Trump hanno ricordato gli attacchi insurrezionali della sinistra radicale contro le istituzioni, i palazzi governativi assaltati da Black lives matter nell’estate scorsa sotto gli applausi dei media.
Le votazioni finali si sono svolte sabato: l'ex presidente è stato assolto. Ben 57 senatori hanno votato a favore della condanna, tuttavia i voti necessari erano 67. Qualche repubblicano ha vacillato sotto l’impatto di quelle immagini tremende (7 repubblicani hanno votato contro Trump). Adesso il Grand old party rimane disorientato; è significativo si parli di una scissione dei repubblicani anti-Trump per creare un partito indipendente, mentre poche settimane fa lo scenario era l’uscita di Trump dal partito. Il silenzio sorprendente dell’ex presidente forse gli è servito.
Ma intanto Biden fa le prove generali della sua nuova politica estera con la prima telefonata a Xi Jinping. Si preannuncia una relazione difficile. La prima conversazione tra i leader delle due superpotenze da quando Biden è presidente, è un riassunto di come i due intendono impostare il rapporto: più «ordinato», senza le improvvisazioni estemporanee o i personalismi di Trump, ma con un carico di ostilità e pendenze tutt’altro che diminuito. Anzitutto l’ordine protocollare contiene già un messaggio: Biden ha voluto fare aspettare Xi Jinping, lo ha sentito solo dopo aver consultato tutti i maggiori alleati. Biden ha messo sullo stesso piano tre ordini di preoccupazioni: per «i comportamenti economici sleali e coercitivi», per gli abusi contro i diritti umani a Hong Kong e nello Xinjiang, per l’espansionismo strategico che minaccia Taiwan. In positivo, come terreni d’intesa, Biden ha indicato la lotta alla crisi climatica, alla pandemia e la cooperazione contro la proliferazione degli armamenti.
Xi Jinping non ha concesso un millimetro. Ha respinto come di consueto le accuse su Hong Kong, Xinjiang e Taiwan come «ingerenze negli affari interni». Ha ribadito la minaccia abituale: o Cina e Stati Uniti cooperano oppure saranno guai per tutti. Ha proposto di riattivare consultazioni e negoziati sui vari tavoli. Ma siamo alle avvisaglie iniziali, perché nel frattempo Biden ha lanciato un riesame completo di tutte le politiche verso la Cina, coinvolgendo anche il Pentagono: l’idea non è quella di smontare le sanzioni di Trump, l’embargo contro Huawei, i dazi, bensì di definire un approccio molto più «olistico», coerente, che coinvolga tutti i rami del Governo e al tempo stesso costruis-ca una coalizione di alleati. Il confronto diretto Usa-Cina si giocherà su terreni che vanno dalle nuove politiche industriali americane (ad esempio per recuperare terreno sul 5G o rafforzare la leadership nei semiconduttori), alla ricucitura con gli europei. Quest’ultima è la missione più difficile dopo l’accordo Ue-Cina sugli investimenti e con una Germania sempre più trainata dall’export verso i mercati asiatici.
In parallelo con la telefonata Biden-Xi c’è stata una reazione gelida del Dipartimento di Stato americano di fronte alla cosiddetta ispezione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a Wuhan. Rinviata per 12 mesi dalle autorità cinesi, l’ispezione rischia di confermare i sospetti dell’Amministrazione Trump sul servilismo dell’Oms verso Pechino. Alcuni membri della delegazione hanno adottato tutte le versioni ufficiali della Cina: hanno escluso qualsiasi collegamento fra il laboratorio virologico di Wuhan e l’origine dell’epidemia, hanno perfino avallato la teoria del complotto sull’origine straniera, collegata a cibo surgelato importato. Tutto questo in un contesto poco affidabile, visto che le autorità cinesi hanno avuto un anno per «ripulire» la scena del delitto.
Va ricordato inoltre che l’Australia è sotto il tiro di pesanti sanzioni commerciali cinesi solo per aver osato pretendere un’indagine internazionale sulle origini del virus. Il Dipartimento di Stato americano ha ribadito che «mancano i requisiti di trasparenza» perché la missione Oms dia risultati credibili, e ha detto che il governo di Washington non accetterà le conclusioni di questa missione «senza averle verificate in modo autonomo e d’intesa con gli alleati».
Repubblicani, una scissione in vista?
Trump sotto impeachment sceglie il silenzio e riacquista punti in seno al partito intanto Biden se la vede con la Cina
/ 15.02.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini