Renzi, seduttore ora abbandonato

Dalle stelle alle stalle – Da segretario quasi osannato del Pd e poi ancora capo del governo, oggi arranca alla guida di un partito oscillante sul 5%
/ 16.12.2019
di Alfio Caruso

Il declino di Matteo Renzi si legge nello sguardo: da ironico a sospettoso. Anche l’andatura ha perso lo smalto e il dondolamento di quando le folle si aprivano dinanzi al suo incedere. Con il suo libro dei sogni aveva attratto l’attenzione di un Paese cinico e malmostoso. Aveva incarnato la figura del progressista capace di scaldare anche l’animo dei moderati. Colui che dopo le europee del 2014 era stato pubblicamente definito dalla Merkel il «matador» oggi arranca alla guida di un partitino oscillante sul 5%.

A trentanove anni sembrava destinato a dominare la scena italiana e a conquistare un posto in prima fila su quella europea. A quarantaquattro ha un grande futuro dietro le spalle e un avvenire incerto, popolato di nemici più che di estimatori. La sua caduta è una considerevole perdita per l’Italia: ci siamo giocati l’unico talento politico del bigoncio, la sola concreta speranza di un cambio di passo. Purtroppo l’ha fatto all’indietro.

Renzi ha goduto in Parlamento di un potere pari a quello del mitologico De Gasperi negli anni turbinosi del dopoguerra. Sciaguratamente erano soltanto arroganza anziché linearità, furbizia anziché correttezza, dileggio anziché mutamento. D’altronde, da segretario quasi osannato del Pd era divenuto capo del governo dopo aver rassicurato il presidente del consiglio dell’epoca, Enrico Letta, con l’ormai famoso messaggino «Enrico stai sereno». In meno di un mese l’aveva mandato a casa in nome del superiore bene dello Stato.

Tuttavia all’opinione pubblica afflitta dalla crisi economica, rintronata dalle consuete litanie di parlamentari intramontabili, impaurita dal destino dei figli, poteva persino piacere un affabulatore in grado di mettere la propria spregiudicatezza al servizio della comunità. Invece la speranza di poter contare su un politico «fiorentino», veniva così definito Mitterrand per la sua scaltrezza, si è tramutata nel dispetto di ritrovarsi con un esibizionista di Rignano, il paese d’origine di Renzi sulle sponde dell’Arno.

E forse la sua parabola è figlia di un orizzonte culturale limitato a onta di studi e letture. Gli è mancato lo scatto, è vissuto d’improvvisazioni, è scivolato per non aver calcolato la convenienza di gesti, di scelte. Sarebbe bastato obbligare la sua sodale Maria Elena Boschi a scegliere tra lei ministra e il babbo vicepresidente di una banca in affanno. L’una escludeva l’altro o viceversa. La travolgente scalata verso il cielo della politica avrebbe dovuto consigliare a Renzi di chiedere a mamma e papà di ritirarsi dagli affari, di non lanciarsi in pericolose avventure imprenditoriali con gli immancabili pettegolezzi su gestioni allegre, favoritismi, rapporti chiacchierati.

Tanti erano stati sedotti dal Renzi degli inizi. Avevano creduto alle sue parole d’ordine: dalla rottamazione dei logori routiniers della partitocrazia alla premiazione del merito; da un nuovo apparato statuale alla volontà di fare dell’Italia un laboratorio per i giovani. Il vasto consenso sorto intorno alle sue prime iniziative aveva isolato le rare invettive di chi già lo marchiava come il «figlio di Berlusconi». Ma non abbisognava di scomodi paragoni: ci avrebbe pensato da solo a smarrire la strada, che aveva indicata.

In fondo le avvisaglie si sarebbero potuto cogliere allorché si presentò in Senato e con la mano in tasca annunciò ai senatori che era suonata la campanella dell’ultimo giro. Proprio l’abolizione del secondo, inutile ramo del Parlamento avrebbe però costituito l’inciampo in grado di sbatterlo a terra. Da almeno vent’anni venivano coltivati propositi trasversali di abolire il sistema bicamerale perfetto, cioè con le stesse funzioni svolte in parigrado: si era, infatti, rivelato un perfetto modo di esautorare, strangolare, svilire, procrastinare leggi sottoposte a una tripla lettura.

Renzi aveva inserito l’abolizione del Senato in una riforma più ampia avente quale obiettivo la riscrittura di ampie parti della Costituzione. La sua iattanza nel rifiutare un’intesa con le opposizioni rese, tuttavia, necessario ricorrere allo strumento del referendum. Renzi era così sicuro di vincere, d’annunciare il ritiro dalla politica in caso di sconfitta. Rappresentò la maniera migliore di coalizzare i suoi numerosi avversari da destra a sinistra: due anni di governo li avevano fatti crescere a discapito degli estimatori. La campagna per abbattere Renzi fu ammantata dal nobile scopo di voler salvare la «Costituzione più bella del mondo».

Per capire che non è così, basta rifarsi alla prima riga del primo articolo: «L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro». Il che lascerebbe presumere che le altre siano fondate sul tempo libero, sullo jogging, sull’intrattenimento. È viceversa una Costituzione figlia del suo tempo, scritta fra l’altro dalle due forze, i cattolici e i comunisti, avverse da sempre al Risorgimento, che, malgrado, le innumerevoli zone d’ombra rimane la pietra fondante della Nazione.

Insomma, le buone ragioni della riforma pagarono il prezzo dell’avversione al loro ispiratore. E lui nel momento della caduta palesò la mancanza di spessore. Anziché tener fede alla promessa di ritirarsi, lasciò soltanto il governo. Conservò la segreteria del Pd e si mise a inseguire una improbabile rivincita, che produsse lacerazioni e scissioni fino al miserevole 18% delle elezioni 2018. Se ne fosse davvero andato, avrebbe evitato d’intestarsi la disfatta elettorale ed entro un paio d’anni sarebbe stato implorato di tornare.

Da allora è stato un continuo avvitarsi su se stesso fino alla fondazione d’Italia viva(cchia). Nei suoi intendimenti dovrebbe percorrere l’identico cammino di En Marche, il movimento di Macron trionfatore in Francia. Ma tra i due esiste un abisso di saperi e di uso di mondo, di tradizione e di apprendistato. Contro Renzi ha giocato pure la complessità dell’Italia, la sua difficoltà di superare le mille divisioni, da cui è stata sempre afflitta.

Adesso contro Renzi c’è anche la procura di Firenze. Indaga a tutto campo sui finanziamenti alla sua fondazione Open, che ha sostenuto le campagne politiche; indaga sui congrui compensi ricevuti nei meeting internazionali; indaga sui prestiti per acquistare la lussuosa dimora privata(1’400’000 euro); indaga sulle società di un amico e sostenitore della prima ora, sospettato di aver veicolato grosse cifre di denaro sui conti esteri. Per ora è più fumo che arrosto. Da trent’anni la magistratura tiene sotto scacco la politica.

Nonostante i proclami in difesa dell’autonomia, i partiti non sono riusciti a conquistare l’antica primazia. Al contrario, hanno preferito accontentarsi di un tornaconto spicciolo: ogni inchiesta ha indignato l’indagato, solleticato i rivali e spesso gli alleati. Il copione si sta ripetendo anche in questo caso. Ma per Renzi era proprio indispensabile comprare un’abitazione così costosa o farsi prestare i soldi dalla mamma di un facoltoso sostenitore, poi eletto nelle file del Pd? Era così difficoltoso invitare il suo famoso «giglio magico» a evitare scelte di dubbia linearità? Insomma, più che l’illegalità è l’opportunità a essere tirata in ballo.

 Renzi minaccia querele civili per attingere ai pingui risarcimenti, ne ha già incassati diversi. Apre le porte a nuove adesioni, se ne contano però pochine e difficilmente ne arriveranno con i pubblici ministeri all’opera. Si batte per modificare la legge sulle fondazioni, ma non trova sostenitori nelle altre forze governative. Per la prima volta il pifferaio suona e nessuno lo segue.