«Ma di che parlano questi?» Se lo chiedono in molti, nel locale affollato, prima che qualcuno cambi canale. Stavano trasmettendo un dibattito sui casi della politica, trattando temi quali la legge elettorale, la prova di forza all’interno del Partito democratico, il parallelo travaglio del centrodestra, le vicende al vertice del comune di Roma. Palpabili il fastidio e l’insofferenza, il contrasto fra una politica per addetti ai lavori che parla il suo gergo esoterico e un’opinione pubblica che vorrebbe la classe dirigente impegnata con la dovuta chiarezza sui problemi reali che affliggono il Paese: la ripresa economica che non decolla, la disoccupazione, l’insicurezza, il debito pubblico a livelli stratosferici, la fiscalità alle stelle.
In questo clima d’indifferenza, solo in apparenza contraddetta dagli insulti che i militanti di opposte tendenze si scambiano in rete, Matteo Renzi prepara il riscatto politico dopo la dura lezione del referendum dello scorso dicembre, quando fu bocciata la sua proposta di riforma costituzionale. Il presidente aveva promesso: se perdo lascio la politica. Si è limitato a lasciare la guida del governo, cedendola a Paolo Gentiloni, ma il partito se lo è tenuto ben stretto. Si è dimesso da segretario, ma solo per ricandidarsi. In un Pd che dopo l’acceso confronto seguito alla sconfitta referendaria ha subìto una scissione a sinistra, provano a contrastarlo due sfidanti, il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente della Puglia Michele Emiliano.
Secondo le regole statutarie la scelta del segretario avviene in due fasi. Prima votano i circoli, articolazioni territoriali del partito, poi si fanno le primarie aperte a tutti. La prima fase ha decretato il successo di Renzi con oltre i due terzi dei voti, mentre Orlando si è dovuto accontentare di un quarto e Emiliano di un sei-otto per cento. La seconda fase il prossimo 30 aprile. Per nulla intimiditi dai fiaschi recenti e incuranti della difficoltà di individuare un campione statistico per un elettorato composto di tesserati Pd e di esterni in proporzione incerta, i sondaggisti assegnano a Renzi fra il 50 e il 75 per cento, a Orlando una forbice 19-31, a Emiliano dal 6 per cento in su. Quattro giorni prima del voto i tre candidati si affronteranno in tv: sarà interessante, alla luce del grande rifiuto popolare della politica, misurare il richiamo sul pubblico della sfida televisiva.
Con il consueto spirito guascone, Renzi considera la riconferma cosa fatta, e confida in una messe abbondante di voti. Ma fra i suoi fedeli c’è nervosismo, perché la partita non è poi così scontata e un successo di stretta misura sarebbe paralizzante. Il risultato nei circoli deve molto al fatto che molti militanti, sulle orme di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, hanno lasciato il partito, e un 40 per cento degli iscritti non ha votato. Ma il 30 aprile molti transfughi andranno a sostenere gli avversari di Renzi. Gianni Cuperlo, uno dei dirigenti che appoggiano Orlando, ha fatto appello proprio agli scissionisti. È quello che i renziani chiamano «soccorso rosso», sottolineando così una delle cause delle tensioni che scuotono il Pd, la sterzata verso destra. È singolare che proprio l’outsider Renzi affidi le sue sorti al partito, mentre gli eredi della tradizione cercano la salvezza all’esterno. Il voto dei non iscritti è la variabile decisiva.
La dilagante disaffezione non lascia prevedere una folta partecipazione. I traguardi delle primarie che nel 2009 incoronarono Bersani con l’afflusso di più di tre milioni di votanti, o anche il dato del 2013, quando andarono a votare due milioni e 800 mila persone e Renzi ne uscì vincitore, sembrano inattingibili. Davanti a una platea prevedibilmente scarsa e lontana dagli entusiasmi del passato, Renzi mette in gioco una popolarità declinante, che cerca di rafforzare attaccando l’Europa, cioè gettandosi a capofitto sulla scarsa simpatia di cui godono al momento le istituzioni di Bruxelles. Ha bisogno di una buona affermazione e ci conta: se confermasse i dati emersi dai circoli, ottenendo due terzi dei voti, potrebbe perseguire il suo chiodo fisso, elezioni anticipate e ricandidatura a Palazzo Chigi.
Per arrivarci è disposto a negoziare sulla legge elettorale, per esempio cedendo sul punto controverso dei capilista bloccati. Ma la prospettiva del voto anticipato rispetto alla scadenza naturale d’inizio 2018 apre scenari non proprio improntati alla chiarezza e alla stabilità. Le tre principali forze in campo, Pd, Movimento 5 Stelle, centrodestra, si equivalgono. Il 40 per cento che il Pd conquistò alle ultime elezioni europee non è che un miraggio al quale il solo Renzi s’illude di poter credere. Se il voto dovesse confermare le previsioni nessuno sarebbe in grado di governare, e così sarebbe necessaria la coalizione fra due delle tre forze in campo, il che presuppone un governo condizionato dalle diverse visioni politiche e dunque programmi di corto respiro.
La coalizione più probabile sembra quella del Pd formato Renzi con il centrodestra. Una prospettiva non estranea al malessere che ha indotto ampie frange del partito a ribellarsi contro l’uomo che proclamò la volontà di «rottamare» i vecchi dirigenti, esasperando la frizione fra i militanti di provenienza cattolica e quelli che hanno alle spalle il Pci.
Intanto Silvio Berlusconi assiste sornione alle convulsioni del Pd, attende una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che gli consenta una nuova discesa in campo, e s’immagina nel ruolo del padre della patria che blocca la deriva populista alleandosi con il «delfino» che ha saputo impadronirsi del Pd estromettendone i comunisti. Ma anche lui è alle prese con ardui problemi di coesistenza, come il rapporto con la Lega, che ormai si colloca al livello consensuale di Forza Italia, e con il suo capo Matteo Salvini, che prova a scuotere l’apatia dei cittadini elettori tuonando contro l’euro, l’Europa, gli immigrati, e una sinistra accusata di esserne succube.