Renzi-Di Maio: parole, parole...

Gli aspiranti/1. – Pensavano di cambiare l’Italia, rischiano di trasformarsi nei politicanti imbonitori, che da 70 anni ammorbano il panorama politico
/ 05.02.2018
di Alfio Caruso

Matteo Renzi e Luigi Di Maio sono le due facce della stessa delusione: messi insieme non fanno un mezzo Macron. Hanno dietro di sé aspettative tradite e promesse non mantenute. Aspiravano a cambiare l’Italia, rischiano di trasformarsi nei politicanti imbonitori, che da settant’anni ammorbano il panorama. La ventata di aria fresca è diventata un malefico olezzo.

Renzi doveva rottamare la vecchia politica: finora ha rottamato il partito democratico, secondo taluni lo ha modificato in PdR, che dovrebbe significare Partito di Renzi, ma si può anche leggere Partito dimezzato di Renzi. Il 40 per cento abbondante raccolto nelle europee del 2014 è un sogno irrealizzabile o, volendo, il risultato, cui impiccare il segretario costretto a inseguire il 25 per cento nelle prossime elezioni. Sarebbe il medesimo risultato conseguito da Bersani nel 2013, con la scusa però che adesso Bersani, D’Alema e gli altri transfughi hanno costituito un nuovo partito, accreditato del 5-7 per cento. Calcoli alquanto astrusi, quando la verità è molto più banale. Il 25 per cento è la soglia che dovrebbe garantire l’agibilità politica di Renzi e convincere la minoranza, bastonata nella composizione delle liste, a non operare un’altra scissione.

Di Maio è stato il massimo assertore della diversità del Movimento 5 Stelle, racchiusa in un paio di slogan: «democrazia diretta», da lui e da Casaleggio jr; «uno vale uno», a patto di essere Casaleggio jr o Di Maio, in caso contrario, «uno vale zero». Di lui il senatore forzista Antonio Razzi, che deve la sua enorme popolarità alla straordinaria imitazione televisiva del comico Crozza, ha detto: «Io non ho studiato perché da bambino dovevo lavorare, mentre Di Maio non ha studiato per poter continuare a non lavorare anche da grande». Che questo possibile candidato premier facesse lo steward durante le partite del Napoli al San Paolo può essere una grande dimostrazione di meritocrazia o la prova lampante dell’estrema modestia dei partiti.

Di Renzi sconcerta la voglia rabbiosa di potere. Fino allo sciagurato referendum sulla Costituzione, che ha azzerato molte delle sue ambizioni e soprattutto le chances di modificare una Costituzione superata dai tempi, poteva essere considerato il meglio figo del bigoncio. Ma le sue indubbie qualità sono state annichilite dall’ansia di essere sempre e comunque in e dal terrore di finire out. Sennò, avrebbe realizzato che sparire, abbandonare non solo la guida del governo, ma anche quella del Pd avrebbe rappresentato un enorme investimento per il suo futuro. Entro sei mesi sarebbero andati in ginocchio a richiamarlo, gli avrebbero offerto le migliori condizioni possibili pur di farlo rientrare.

Di Maio sembra il perfetto esemplare di lingua biforcuta con uso improprio di congiuntivo. Sull’euro, sulla riforma delle pensioni, sull’immigrazione, sui vaccini ha detto e si è contraddetto con l’impudenza di chi sta sempre dalla parte della verità. È lo specialista delle mezze bugie, del tizzone bruciante lasciato in mano all’ultimo malcapitato. Le sue tristi grisaglie annunciano la smania di essere leader. Per non smentire la presunta linea guida del movimento ha annunciato che dopo le elezioni non si faranno alleanze con altre forze, bensì si cercheranno convergenze sui singoli provvedimenti.

Renzi ha difeso e protetto Maria Elena Boschi, coinvolta nell’affair dei fallimenti bancari, persino contro i propri interessi. Non è parsa la fedeltà all’amica, alla collaboratrice, bensì la tracotanza dell’impunità. La Boschi, penalmente innocente, non poteva restare al governo per non aver avuto la forza, l’intelligenza, la lungimiranza di far dimettere il padre dalla vicepresidenza di Banca Etruria, il giorno in cui lei divenne ministro. Il resto è stato l’inevitabile conseguenza di quel peccato originale. Candidarla a Bolzano e in altre città anziché nella natia Arezzo ha certificato la coda di paglia di chi agli esordi aveva fatto dell’intransigenza morale la propria cifra.

Di Maio è stato lo sponsor del sindaco di Roma Raggi, un’altra che con la verità ha un rapporto complicato: dall’aver nascosto il praticantato da avvocato nello studio del condannato Previti all’aver negato quei rapporti con i propri collaboratori, per i quali, invece, è stata trascinata a processo. Dopo un anno e mezzo, dopo tutte le giustificazioni pretese e concesse alla Raggi, Roma ha toccato forse il punto più basso della sua strabiliante e controversa storia: i topi e il suino in mezzo ai rifiuti, il disastro di autobus e metro, i buchi nelle strade. Eppure Di Maio, con raro sprezzo del ridicolo, annuncia l’imminente rinascita della Capitale, frutto dello strepitoso lavoro della giunta pentastellata.

Renzi fatica a farsi ascoltare e più ancora a farsi credere: ha smarrito le parole che vanno al cuore. I giornali lo tartassano quotidianamente, ma lui riesce sempre a metterci del suo come le improvvide telefonate con il finanziere, editore di «Repubblica», Carlo De Benedetti. Se gli andrà bene il 4 marzo, dovrà rassegnarsi a condividere il palcoscenico con altri protagonisti, compresi gli odiati D’Alema e Bersani.

Di Maio veleggia sull’onda del risentimento di tanti, che ai partiti tradizionali affibbiano, oltre alle loro immense responsabilità, i propri insuccessi. Sarebbe impresentabile per la decenza e per storia, ha collocato il golpe di Pinochet in Venezuela, ma godrà dell’effetto Trump: di essere il giustiziere di quella genia di politici senz’arte né parte nella quale spasima di entrare per non uscirne più.