Regno Unito disunito al voto

Elezioni anticipate – L’8 giugno i cittadini britannici sono chiamati alle urne per delineare la composizione della Camera dei Comuni e la maggioranza parlamentare del futuro premier, in vista degli imminenti negoziati con Bruxelles per stabilire tempi, modi e costi dell’abbandono dell’Ue da parte di Londra
/ 06.06.2017
di Cristina Marconi

Un’inversione a U sgraziata ha portato un brutto cambio di vento e di fortuna per Theresa May, la premier britannica che sperava di andare alle urne per uscirne rafforzata e che ora, a una settimana dal voto, è nel mezzo di una tempesta di polemiche e di un crollo di consensi. Qualche sondaggio – YouGov nella fattispecie – parla addirittura del rischio di un «hung parliament», con i Tories privi di maggioranza e un orizzonte di instabilità che, in tempi di Brexit, non piace ai mercati. E indipendentemente da quello che sarà il responso finale degli elettori, quello che è andato in scena nel Regno Unito nelle ultime due settimane è la riprova di come i britannici non amino chi dà troppo per scontato il loro voto ed esibisce il potere con una sicurezza troppo vicina all’arroganza. Quando Neil Kinnock nel 1992 gridò tre volte un vittorioso «Siamo a posto!» alla fine di un comizio, perse le elezioni anche se il Paese usciva da undici anni di Margaret Thatcher e i sondaggi lo davano in vantaggio. Forse per la May andrà meglio, ma gli errori accumulati hanno sicuramente intaccato in maniera grave il messaggio di «leadership forte e stabile» che aveva scelto come mantra elettorale.

Quando il 18 aprile scorso ha annunciato le elezioni anticipate, la May immaginava di trascorrere sette settimane a consolidare la sua immagine di unica persona in grado di guidare il Paese attraverso i mari agitati dei negoziati sulla Brexit, la «donna maledettamente difficile» che avrebbe dato filo da torcere agli eurocrati intenzionati a punire il Regno Unito per impedire al Paese di avere successo dopo la sua uscita dall’Unione europea. Sembrava una scommessa ragionevole, soprattutto alla luce dei ventuno punti di vantaggio che ad aprile i Tories avevano su un Labour segnato da una leadership debole e controversa come quella di Jeremy Corbyn.

I problemi sono iniziati quando, appena un mese dopo, la May ha pubblicato il manifesto conservatore, annunciando una misura impopolare di politica sociale, la cosiddetta «tassa sulla demenza senile», che consiste nel detrarre i costi delle cure ricevute a domicilio dal valore della casa del malato. Un invito all’eutanasia, come l’ha definito qualcuno. Non solo l’annuncio ha intaccato l’immagine di leader solidale, attenta al sociale e alle famiglie che «ce la fanno appena», ma ha fatto infuriare anche la base conservatrice tradizionale di piccoli possidenti in età avanzata, terrorizzati di vedere lo Stato mettere le mani sulle loro proprietà. A fare scalpore, oltre alla misura in sé, uno dei rari passi falsi del potentissimo consigliere Nick Timothy, ma la maniera in cui è stata avanzata, senza consultare i ministri, creando una frattura all’interno dello staff della premier e un clima di sfiducia intorno a lei. E il fatto che la «dementia tax» sia stata fatta sfumare in un nube di confusione ha lasciato all’elettorato la sensazione che la Iron Lady Thatcher, per ora, non abbia successori e che non è detto che i negoziati sulla Brexit stiano meglio se lasciati in mano ad una personalità così imprevedibile.

L’attentato di Manchester del 22 maggio ha distolto l’attenzione dal pasticciaccio della tassa, ma non ha dato alla May l’occasione per brillare. Il fatto che l’attentatore sia sfuggito ai controlli dei servizi segreti sebbene fosse stato segnalato ben tre volte da membri della comunità musulmana per le sue posizioni estremiste è diventato oggetto di un’indagine interna dell’MI5, ma questo non è bastato a risanare l’immagine di un governo che nonostante le manifestazioni di forza ha trascurato un dossier che aveva tutti i crismi per essere rilevante. Proprio perché ha radici profonde nel tempo, che risalgono alla guerra contro Muammar Gheddafi in Libia nel 2011, l’attentato di Manchester richiama il precedente ruolo svolto dalla May, che è stata ministro degli Interni dal 2010 al 2016. Manchester, con la sua reazione nobile e orgogliosa, ha mostrato un Paese diverso da quello spaventato e chiuso apparso nell’ultimo anno, più aperto e tollerante, e dall’altra parte dello spettro politico l’attentato ha permesso anche ad un’entità ormai in via di dissoluzione come Ukip, partito che una volta raggiunto l’obiettivo della Brexit ha perso molta della sua ragion d’essere, di ritornare ad attirare l’attenzione con le sue sparate anti-islamiche.

Tutti elementi, questi, a cui si somma il fatto che Jeremy Corbyn, l’invotabile per antonomasia, è riuscito a dare un’immagine migliore, se non frizzante almeno rassicurante, meno tempestosa di quella della sua rivale. I britannici, popolo che ha in assoluto odio ogni forma di eccesso di potere, sembra aver messo da parte l’antipatia nei suoi confronti per stemperare un po’ l’ascesa della May, i cui rating personali avevano raggiunto vette astronomiche, e farla eventualmente tornare a Downing Street con più umiltà e senza quella sensazione di poter rubare politiche a destra e a sinistra senza doversi porre il problema della coerenza. Undici giorni dopo le elezioni, il premier dovrà iniziare a negoziare con Bruxelles e questo, per i prossimi 22 mesi, sarà il tema dominante della politica del Paese, che dovrà vedersela con le inevitabili conseguenze di un calo dell’immigrazione già in corso e dannoso per le aziende e di un’economia che prima o poi inizierà a risentire del voto.

Per chi ci crede ancora dopo le previsioni sballate alle elezioni del 2015 e al referendum del 2016, i sondaggi danno alla May in media una decina di punti di vantaggio ma mostrano un indebolimento progressivo che, in mancanza di svolte, rischia di diventare grave. Nel parlamento precedente, i Tories avevano 330 seggi contro i 229 dei laburisti, i 54 degli indipendentisti scozzesi e i nove dei LibDem. In totale, potevano contare su una maggioranza di appena 17 seggi.

Una campagna tutta incentrata sulla Brexit è stata dirottata da una serie di eventi che hanno dato l’immagine di un Paese fuori controllo, tra fallimenti di intelligence, attacchi informatici al servizio sanitario nazionale ed ex compagnie di bandiera incapaci di gestire un’emergenza rispetto alla quale solo le regole europee danno un po’ di tutela, infrangendo quell’atmosfera di idillio isolazionista che la figlia del vicario aveva costruito nei suoi mesi a Downing Street. Ma la principale ragione dell’indebolimento della May sta in un sospetto che si è fatto strada nella mente dell’elettorato e che Jeremy Paxman, il più implacabile intervistatore del Paese, ha brillantemente sintetizzato durante un dibattito televisivo dal format decisamente inusuale – i due leader dei principali partiti hanno prima risposto alle domande del pubblico e poi a quelle di Paxman, separatamente, visto che la premier aveva detto fin dall’inizio della campagna che non avrebbe voluto confronti televisivi – definendo la May «un pallone gonfiato che scoppia al primo sparo».

Dopo che l’«Economist» l’aveva ribattezzata Theresa Maybe in una celebre copertina di gennaio, quella del giornalista rischia di essere una definizione ancora più dura a morire. Tanto più che appena due giorni dopo è caduta in un tranello teso con inusuale scaltrezza da Corbyn, che ha deciso all’ultimo momento di partecipare al dibattito televisivo dei partiti politici, lasciando solo lei a farsi rappresentare dal suo ministro degli Interni Amber Rudd. Corbyn è andato bene, come bene sono andati tutti gli altri. Nessuno ha perso l’occasione per sottolineare l’assenza della premier.

Come dice un detto britannico, se non sei al tavolo, sei sul menù.