Raid indiano contro la JeM del Kashmir

India/Pak – Per la prima volta dal 1971 Delhi decide di attraversare militarmente il confine
/ 04.03.2019
di Francesca Marino

I fatti innanzitutto: lo scorso 14 febbraio un attentatore suicida si faceva esplodere a Pulwama, in J&K, provocando la morte di quaranta soldati indiani. L’attentato viene subito rivendicato, in due video messi immediatamente in rete, dalla Jaish-e-Mohammed (JeM): uno dei numerosi gruppi jihadi di matrice pakistana, creato e addestrato dall’esercito e dai servizi segreti di Islamabad. Manzoor Azhar, il capo della JeM, vive in Pakistan sotto protezione dell’Isi e ogni tentativo di farlo includere nella lista dei terroristi internazionali dell’ONU è stato e viene regolarmente bloccato dalla Cina per conto del Pakistan. Alla JeM si devono numerosi attentati in India, incluso un attacco al Parlamento di Delhi nel 2001.

Islamabad, seguendo un copione ormai prestabilito da anni, nega ogni coinvolgimento. Non solo: prima nega che esistano campi di addestramento della JeM, poi domanda all’India «prove» del coinvolgimento della suddetta JeM nell’attacco. Qualche giorno dopo, mentre il Gruppo d’azione finanziaria internazionale (FATF, Financial Action Task Force) decide se mantenere il Pakistan sulla grey list di Stati che sponsorizzano il terrorismo o includerlo nella black-list, Islamabad annuncia di aver messo al bando (per l’ennesima volta) le organizzazioni legate alla Lashkar-i-Toiba di Mohammed Hafiz Saeed (che ha organizzato l’attacco di Mumbai del 2008 ed è libero in Pakistan, come Manzoor Azhar) e di aver preso «controllo amministrativo» del quartier generale della JeM (lo stesso di cui negava l’esistenza fino a qualche giorno prima).

Quando la FATF decide di lasciare il Pakistan, almeno fino a giugno, sulla grey list, Islamabad si rimangia ogni decisione presa, sostenendo ancora una volta che i campi della JeM non esistono e tutto è frutto della propaganda indiana. Il copione, praticamente identico, è stato seguito parola per parola ogni volta, ogni singola volta, che l’India è stata colpita dalla LiT o dalla JeM. E New Delhi, nel corso degli anni, ha sempre seguito le vie diplomatiche e del diritto internazionale per rapportarsi alle incursioni jihadi: o meglio, è sempre stata fermata dalla comunità internazionale e dagli Stati Uniti in particolare, per diversi motivi. Tra cui il fatto che sia l’India che il Pakistan possiedono armi nucleari e che una guerra tra le due nazioni potrebbe scatenare un conflitto potenzialmente globale.

Lo spauracchio della bomba in mano ai jihadi ha sempre funzionato: non questa volta, però. Così dodici Mirage indiani sono entrati, per la prima volta dal 1971, in territorio pakistano per bombardare il più grosso campo di addestramento della JeM a Balakot, nel Khyber-Paktunkhwa. A un centinaio di chilometri da Islamabad, tanto per dare un po’ di coordinate geografiche, e non distante da Abbottabad dove gli Usa, con un’azione simile, avevano ucciso Osama bin Laden.

Il giorno dopo l’esercito pakistano ha attaccato postazioni militari indiane lungo la LoC, il confine provvisorio che divide il Kashmir, ha abbattuto due aerei indiani e catturato un pilota. Gli indiani hanno abbattuto un jet pakistano. E la possibilità di una guerra, l’ennesima, tra Pakistan e India diventa sempre più concreta. Gli inviti al dialogo arrivano da ogni parte, con una differenza, però. Nessuna nazione, neanche la Cina che ufficialmente sostiene il Pakistan a spada tratta, si è schierata a fianco di Islamabad per condannare l’incursione indiana.

Sono stati in molti, invece, a chiedere a gran voce che il Pakistan la smetta una buona volta di adoperare terroristi e affini come mezzo di politica estera. La narrativa dell’esercito pakistano, difatti, comincia a mostrare la corda: alle dichiarazioni di Imran «Taliban» Khan, messo al potere dall’esercito e dai servizi segreti, non crede più nessuno. Il copione recita che il Pakistan ha pagato un prezzo altissimo in termini di vittime del terrorismo, che il Pakistan vuole pace, che Islamabad più volte ha teso la mano all’India per aprire un dialogo. Vero: ogni volta difatti che i rapporti tra India e Pakistan cominciavano a distendersi, i jihadi hanno attaccato. Kargil nel 1999, Mumbai nel 2008, Uri nel 2016 tanto per citare alla rinfusa. E l’esercito di Islamabad ha sempre puntato sulla quasi certezza che Delhi non avrebbe risposto militarmente. Le cose però cambiano, dappertutto tranne che in Pakistan.

E l’India di Narendra Modi non è l’India del passato. Non perché ci sono gli integralisti hindu al potere, ma perché la nuova generazione, cresciuta da Kargil in poi, non ha nessuna intenzione di seguire la politica dei padri porgendo l’altra guancia. In maggio in India si vota per la rielezione del premier, e Modi non ha intenzione di perdere. D’altra parte, a Islamabad fa comodo avere dall’altra parte del confine un governo di destra, per poter continuare a propagandare la teoria del nemico alle porte: la guerra è una manna per distogliere l’attenzione dal fatto che tre quarti delle regioni pakistane sono in rivolta contro il governo centrale, che tre quarti dei cittadini pakistani sono privati dei più elementari diritti umani e civili, che l’economia è a pezzi e che il debito pubblico strangola il paese. Finché c’è guerra c’è speranza, recita il titolo di un film di Alberto Sordi. E la guerra, reale o paventata, è l’unica speranza per l’esercito pakistano di continuare a governare il Paese. Se la comunità internazionale non ferma il Pakistan, nessuna pace è possibile.