Radicalizzazione e disturbo psichico

In settembre a Morges, in novembre a Lugano: due aggressioni all’arma bianca considerate i primi attacchi di matrice jihadista in Svizzera. Ma si può parlare di atti terroristici quando a commetterli sono persone affette da un disturbo mentale? Intervista all’esperta di estremismo e radicalizzazione Mirjam Eser Davolio
/ 28.12.2020
di Luca Beti

Negli ultimi mesi, in Europa sono stati compiuti vari attentati terroristici. Tra questi rientrano probabilmente anche l’omicidio commesso in settembre a Morges, nel canton Vaud, e l’accoltellamento di novembre a Lugano. Stando al Servizio delle attività informative della Confederazione, sono i primi attacchi di matrice jihadista in Svizzera. Ambedue gli autori soffrono di problemi psichici. Nell’intervista, Mirjam Eser Davolio, esperta di estremismo e radicalizzazione, sostiene che la loro radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate piuttosto nel loro stato mentale che nell’opera di convincimento della propaganda jihadista in Internet.

Con le aggressioni a Morges e Lugano, la Svizzera registra i primi attacchi di matrice islamica. Ciò la sorprende?
Ma siamo davvero sicuri che siano stati attacchi di matrice islamica? O si è trattato piuttosto di aggressioni commesse da persone affette da disturbi psichici? Secondo me, bisogna stare attenti nel definire subito un atto di violenza come un attentato terroristico.

Il fatto che anche la Svizzera possa essere colpita da un attacco fondamentalista non mi sorprende. Magari per i media e per la gente è stata una sorpresa, ma non per chi si occupa di estremismo. Tutto l’Occidente è nel mirino dei jihadisti. Certo, gli Stati coinvolti in azioni militari nei Paesi arabi sono più a rischio. Ma di motivi per commettere un atto terroristico in Svizzera ce ne sono già stati in passato, per esempio quando si è votato contro l’edificazione dei minareti. Un voto che allora suscitò un’ondata di critiche nel mondo islamico, un episodio dimenticato con il passare del tempo. Ricordo inoltre che negli ultimi cinque anni, il numero di persone radicalizzate è rimasto più o meno stabile in Svizzera e quindi non si può nemmeno parlare di un ritorno di questo fenomeno.

La serie di attacchi terroristici perpetrati in Europa negli ultimi mesi ci portano però a pensare che ci sia una certa recrudescenza. Anche se sconfitto militarmente, l’autoproclamato Stato islamico continua a diffondere la sua ideologia.
Sì, l’ideologia dell’ISIS è ancora ampiamente presente e diffusa, soprattutto nel darknet. La ripubblicazione in settembre delle vignette satiriche da parte del settimanale «Charlie Hebdo» ha riacceso il discorso dell’odio e ha dato nuovo vigore all’appello morale dello Stato islamico che chiede ai suoi simpatizzanti di vendicare questo atto blasfemo contro il profeta. L’ideologia dell’ISIS continua a esercitare una forte attrattiva sui giovani. Anche i meccanismi che portano alla violenza funzionano ancora molto bene.

Ma perché proprio ora? E perché Morges e Lugano?
Spetta al Ministero pubblico della Confederazione chiarire le ragioni e i moventi dei due attentatori, che ricordo psicologicamente labili. L’accoltellamento di Morges è avvenuto dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto e prima della serie di atti terroristici commessi in Europa. Per quanto riguarda l’aggressione di Lugano, al momento non si sa se la donna abbia agito in modo premeditato, se sia stata colta da un raptus omicida visto che si è procurata l’arma sul posto o se si tratti davvero di un attentato di matrice jihadista.

Sia a Morges che a Lugano, gli attentatori hanno agito da soli. Si parla di lupi solitari, senza l’appoggio di una rete terroristica. È una strategia nuova?
Non direi. Negli anni scorsi, in altri Paesi ci sono già stati attacchi di singoli individui. Sono spesso persone marginalizzate, con problemi, che cercano nell’atto violento un’affermazione personale e una via d’uscita dal loro stato di sofferenza, dalla propria situazione di disagio. Visto che l’autoproclamato Stato islamico non riesce più a pianificare e organizzare attentati terroristici collegati tra di loro, rivendica per sé gli attacchi eseguiti ovunque nel mondo da singoli individui.

Nella visione tradizionale dei jihadisti, la donna ha un solo compito, quello di procreare. La sorprende il fatto che a Lugano sia stata una donna a commettere questo atto terroristico?
No. In passato, molte giovani donne hanno commesso atti terroristici. Inoltre, nell’autoproclamato Stato islamico anche le donne sono state istruite all’uso delle armi e hanno commesso attacchi suicidi. Il loro ruolo non era solo quello di provvedere alla prole. Per il caso specifico dell’aggressione in Ticino è difficile pensare che la donna abbia agito su mandato dell’ISIS.

Ricordo che l’11 per cento delle persone radicalizzate in Svizzera sono donne e che a volte sono state proprio loro a spingere gli uomini a partire per la Siria o a commettere atti violenti. Le donne non vanno quindi solo viste come vittime bensì anche come protagoniste.

Ha riscontrato delle analogie tra l’attacco di settembre a Morges e quello di novembre a Lugano?
Prima di tutto le vittime sembrano casuali, scelte a caso in un luogo affollato. A Nizza, invece, l’attentatore era entrato in una chiesa per accoltellare dei credenti cattolici. Anche se hanno storie individuali diverse, stando alle informazioni rese note dalla stampa la donna a Lugano e l’uomo a Morges presentano delle somiglianze. Ambedue soffrono di disturbi psichici, hanno una tendenza ad isolarsi e difficoltà a rapportarsi con gli altri. Si sono costruiti una loro ideologia nella quale si sono rinchiusi, rifiutando qualsiasi aiuto e influsso esterno. La loro radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate piuttosto nel loro stato mentale che nell’opera di convincimento della propaganda jihadista in Internet.

Ma in questi due casi, si può parlare di atti terroristici? Dov’è la linea di demarcazione tra radicalizzazione e disturbo mentale?
Beh, è difficile determinare dov’è questo confine. Si sa che le malattie psichiche come la schizofrenia possono portare una persona alla violenza. Ci si deve chiedere però se senza l’ideologia jihadista i due aggressori si sarebbero armati di coltello per colpire in maniera indiscriminata dei perfetti sconosciuti. L’ideologia sa strumentalizzare queste persone psichicamente labili, trasformandole in specie di eroi. Nei due casi avvenuti in Svizzera, sembra sia stato un atto estremo non premeditato. Queste sono interpretazioni personali che devono essere confermate dai rapporti degli psichiatri forensi che si occupano dei due casi. È importante quindi non parlare subito di attacco terroristico, ma di andare con i piedi di piombo per non fare del sensazionalismo, soprattutto se queste aggressioni sono state compiute da persone squilibrate.

Ciò significa che l’ideologia jihadista esercita un’attrattiva particolare sulle persone affette da un disturbo mentale?
Ogni società ha una certa percentuale di persone con problemi mentali, quindi la propaganda jihadista punta anche su di loro. Ricordo che parecchie persone recatesi nei territori occupati dall’autoproclamato Stato islamico avevano problemi mentali. L’ISIS lo sapeva. E visto che non erano molto affidabili e non erano ottimi combattenti, venivano mandati in prima linea, usati come carne da macello o impiegati in attentati suicidi. L’ISIS li strumentalizzava e li strumentalizza tutt’ora.

La situazione di crisi attuale può fungere da fattore scatenante per questi individui mentalmente instabili?
Ricordo che il terrorismo vuole proprio diffondere la paura nella popolazione, un obiettivo più facilmente perseguibile in un periodo di crisi. Più che la pandemia, a scatenare questa serie di attentati terroristici è stata la ripubblicazione delle caricature di Maometto. Molti musulmani la considerano una provocazione, un’offesa nei confronti del profeta che alcuni si sentono in obbligo di vendicare. Da allora si registra un’ondata di odio nei confronti della Francia e in generale dell’Occidente. Con le restrizioni e affermazioni a difesa della libertà di espressione e dei valori secolari, la Francia ha sottolineato che questi valori e diritti sono insindacabili.

Di fronte alla serie di attentati di matrice jihadista, i politici chiedono più repressione. Gli esperti come lei chiedono invece interventi di lotta alla radicalizzazione.
La repressione non basta. Dobbiamo continuare a fare prevenzione per individuare subito le persone che si stanno radicalizzando perché in seguito è difficile intervenire con successo. Chi si radicalizza si chiude in una specie di bolla e si isola da amici, parenti e familiari. Negli ultimi anni si registra in Svizzera un leggero calo delle segnalazioni ai servizi di consulenza, enti creati a partire dal 2015 in varie città e cantoni. Insegnanti, genitori, assistenti in ambito socioculturale e sociale hanno abbassato un po’ la guardia. Invece sarebbe importante rivolgersi a questi esperti per verificare se si stia davvero assistendo a una radicalizzazione.

In un’intervista, la procuratrice della Confederazione, Juliette Noto, afferma che in Svizzera esiste un terreno fertile per la radicalizzazione. Condivide questa opinione?
La Svizzera non si differenzia molto da altri Paesi europei, come ha evidenziato una nostra ricerca. La percentuale di persone radicalizzate in proporzione alla popolazione e al numero di musulmani nella Confederazione è simile a quella registrata in Germania ed è inferiore alla quota rilevata in Austria, Francia o Gran Bretagna, ma è superiore a quella in Italia. Il fatto di non aver subito degli attentati in passato ci ha dato l’illusione di vivere in una sorta di isola felice, ci ha fatto credere che il fenomeno non ci concernesse o che non fosse più attuale.

Si è fatto abbastanza nella lotta alla radicalizzazione?
Dal 2015 in poi si è fatto molto, ma non abbastanza. In molti cantoni, l’informazione agli insegnanti, agli assistenti sociali o, in questo caso specifico, al personale di cliniche psichiatriche è ancora insufficiente. Solo conoscendo bene il fenomeno dell’estremismo si è in grado di individuare le dinamiche pericolose e intervenire in maniera adeguata e tempestiva. Si tratta di un lavoro di prevenzione che richiede il coinvolgimento di diversi professionisti e che va migliorato.