Dal quartiere di Majorstuen arriviamo a piedi al Vigeland Park, il parco con le statue sul ciclo della vita, insieme ad Antonio Trivilino, il presidente del Circolo degli italiani di Oslo. «Per otto anni ho fatto parte del Consiglio degli anziani», ci racconta mentre passeggiamo. «Ogni anno si tengono degli incontri aperti al pubblico; non sono mai riuscito a organizzare una conferenza sul tema dell’eutanasia perché, nonostante la Norvegia sia sempre più laica, resta fondamentalmente una società cristiana protestante. L’idea che la vita possa essere tolta mette paura, e ancora di più perché ci troviamo in un Paese dove il numero dei suicidi è abbastanza alto rispetto alla media mondiale». Più volte Trivilino ha raccontato di un modo di dire della tradizione norvegese: «Morire con gli stivali ai piedi». Significa che fino all’ultimo istante sei vigile, autosufficiente. «Alcuni mi hanno confessato che vorrebbero morire facendo l’amore, c’è una paura fortissima in loro della decadenza fisica». E questo è legato a una cultura profonda: «Un norvegese medio cammina, va nel bosco, scia, nuota, ha una attività sportiva molto intensa».
Il giorno seguente andiamo allo Storting, il Parlamento norvegese sulla Karl Johans gate. In una stanza al secondo piano ci aspetta Bård Hoksrud, uno dei leader del Partito del progresso, di orientamento liberale, quello più a destra del Parlamento. Nel suo programma il suicidio assistito è previsto solo per malattie come il cancro, la SLA, per le quali non c’è una possibilità di guarigione. «Noi liberali pensiamo che ogni individuo ha diritto di poter scegliere il momento in cui uno desidera morire», ci spiega.
In Norvegia il suicidio assistito è illegale, ma è prevista una riduzione di pena per chi l’ha praticato per ragioni umanitarie a una persona affetta da una malattia incurabile, mentre è permessa l’eutanasia passiva, cioè l’interruzione di cure mediche. Hoksrund dice che in Parlamento non c’è mai stato un vero dibattito sul tema ma, secondo un sondaggio, il 70% dei norvegesi sarebbe favorevole al suicidio assistito e alcuni cittadini vanno a morire in Svizzera. «Bisogna tener conto della religiosità, del rispetto per la vita, della paura di uccidere un’altra persona», afferma. «Che questa cosa possa farla addirittura lo Stato turba i norvegesi: nel profondo del cuore sono cristiani. Io sono combattuto, da una parte la mia formazione cristiana prevale, ma sono anche un politico che rispetta l’orientamento di maggioranza del suo partito, poi capisco umanamente chi desidera morire poiché soffre in modo atroce e vuole porre fine ai suoi giorni».
Durante il nostro soggiorno in Norvegia incontriamo anche Ole Martin Moen, docente di Etica pratica, in una saletta della Oslo Metropolitan University. Giovanissimo, il viso florido con al centro un paio di occhiali in metallo. Con il collega Aksel Braanen Sterri ha scritto il libro Eutanasia attiva, etica del fine vita, decisamente favorevole all’autodeterminazione. «Nelle democrazie liberali occidentali – dice – si dà un grande peso alla libertà di scelta dell’individuo, anche se poi molte volte viene limitata». Secondo lui, comunque, ci devono sempre essere tre condizioni: quando i pazienti sono gravemente malati e sofferenti, senza prospettive realistiche di guarigione, e hanno fatto una scelta cosciente di morire. «La vita, per alcuni, può essere molto dolorosa. La morte allora è un bene rispetto a una vita simile, e proprio perché è difficile sapere se sia giusto o sbagliato porre fine a un’esistenza, non siamo giustificati a prevalere sulla scelta dell’individuo».
Il saggio di Moen e Sterri contiene 80 pagine di controargomentazioni del principale oppositore all'eutanasia, Morgen Magelssen, professore associato di Medicina etica che è stato consulente per il libro. Siamo riusciti a fissare un appuntamento con lui al Center for Medical Ethics. Moen e Magelssen erano «amati nemici» e partecipavano uno alle lezioni dell’altro con tesi contrapposte. «Il libro di Moen e Sterri è fondamentale per lo studio dell’eutanasia in Norvegia», ammette Magelssen, «anche se io sono contro la legalizzazione del suicidio assistito. Come cristiano sono contro l’interruzione della vita, invece credo che le cure palliative siano ormai talmente efficaci che non c’è un bisogno di morire legato alla sopportazione del dolore; inoltre in Norvegia si possono limitare i trattamenti medici per legge, in questo modo si ottiene una morte più rapida». Magelssen sottolinea anche un aspetto legato alla professione medica, che ha un’etica legata al salvare le vite, «dargli invece il ruolo di toglierla creerebbe una situazione inaccettabile, dando un segnale negativo alle persone che stanno soffrendo».
Qualche giorno dopo, insieme a Trivilino, andiamo in treno ad Halden per incontrare Trond Enger, un prete della chiesa protestante favorevole al suicidio assistito di cui hanno parlato tutti i quotidiani norvegesi. Alla fine di una strada sterrata c’è la casa del sacerdote, l’ultima prima di una valle. Apre la porta un uomo anziano dai capelli argentati, ci fa accomodare in un piccolo salotto. «La vita è un regalo di dio», dice, «ma la persona deve partecipare a questa vita, uno nasce anche per la volontà umana dei suoi genitori, nel Vecchio Testamento si racconta che Abimelech, il figlio del giudice Gedeone, si fece uccidere dal suo scudiero, e non fu criticato per questo». Enger ha assunto questa posizione anche leggendo le tesi del gesuita Hans Küng. Sostiene che molti all’interno della chiesa accettano l’idea del dolore come necessario «perché è lo stesso che ha provato Gesù Cristo», ma il teologo dice: «Che idea di Dio è? Non è che se soffri sei più cristiano». «Gesù Cristo in tutte le sue azioni – continua Enger – ha dimostrato in modo pratico di far diminuire i dolori. È la mia visione di Dio che mi permette di accettare l’eutanasia. Da un punto di vista religioso preservare la vita è una cosa giusta, ma non è il bene supremo, il bene supremo che investe tutta la cristianità è l’amore per gli altri».
Poi il religioso ci racconta la storia di un cappellano militare il quale si era trovato di fronte a un soldato che aveva una scheggia di ferro nel petto e gli creava un dolore enorme: «La ferita era talmente grave che non sarebbe sopravvissuto. Allora il soldato pregò il prete di ucciderlo, e questi esaudì il suo desiderio. È stato l’atto più grande di carità. Non sarebbe comunque sopravvissuto, avrebbe solo sofferto inutilmente. La vita è sacra, ma l’amore e la pietà in situazioni speciali ed estreme vengono prima». Enger precisa che, all’interno della Chiesa protestante norvegese, lui appartiene a un gruppo minoritario. E non ha ricevuto nessun anatema dai suoi «superiori»: «Quello che pensa un piccolo prete di campagna non ha molto peso, se fossi stato un vescovo probabilmente ci sarebbero state delle reazioni negative, invece solo silenzio».