Quell’opportunità che sa di Russia e di Cina

Orbán e Vucic continuano a strizzare l’occhio a Mosca mentre il gruppo di Visegrad si è spezzato e il futuro resta incerto
/ 11.04.2022
di Paola Peduzzi

Vladimir Putin si è congratulato con il premier ungherese Viktor Orbán e il presidente serbo Aleksandar Vucic che hanno vinto le elezioni nei loro paesi il 3 aprile. Lo stesso giorno in cui le istantanee del massacro di Bucha, alle porte di Kiev, hanno iniziato a fare il giro del mondo. Prima erano poche, poi sono diventate tantissime, ognuna con un particolare di brutalità diverso ma ugualmente inaudito, e sono arrivate le immagini satellitari che dimostrano che questo è quel che le forze russe stanno lasciando mentre compiono quello che loro chiamano «ritiro». Due leader europei – Orbán è dentro l’Ue, Vucic alle porte – hanno ricevuto una telefonata di complimenti dal presidente russo proprio mentre si vedeva la mostruosità della sua missione militare in Ucraina, e ne sono comunque stati fieri. Perché l’iniziale allineamento contro la guerra ingiustificata di Putin è svanito, e a guidarne il declino sono stati questi politici dell’est Europa che da tempo si ribellano all’abbraccio occidentale e che vedono in questo nuovo ridisegnarsi delle alleanze un’opportunità che sa di Russia e anche di Cina. Orbán è il più problematico: è nell’Ue, ha diritto di veto nell’Unione, lo ha già esercitato più volte. Ha la possibilità di condizionare le decisioni europee. Poi, certo, talvolta ci dimentichiamo che il rapporto di potere è in realtà invertito, perché l’Ungheria dipende dai fondi europei, perché non è il Regno Unito che può divorziare e restare indipendente (anche se oggi trovare qualcuno, anche tra i sostenitori della Brexit, che sia ancora convinto che sia stata una buona idea, quella di andarsene, è molto più complicato rispetto ad un anno fa). L’Ungheria è il classico esempio di paese che conta solo in quanto membro dell’Ue, da sola sarebbe una nazione piccola, illiberale con un enorme problema demografico. Ci dimentichiamo tutto questo perché Bruxelles decide all’unanimità e quindi l’ostruzionismo di Orbán pesa tantissimo. Lui lo sa e se ne approfitta.

Non è detto che il calcolo del premier ungherese, che ha vinto il suo quarto mandato consecutivo (il quinto della sua carriera) il 3 aprile, si rivelerà infine fruttuoso. Orbán ha dichiarato, «festeggiandosi», di aver battuto la sinistra del suo paese, la sinistra internazionale, la burocrazia europea, la macchina di George Soros, il filantropo ungherese-americano, e perfino il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, che gli aveva chiesto, in uno dei suoi accorati discorsi ai leader mondiali, di chiarire da che parte sta, se con lui e l’Occidente oppure con Putin. Ma questo posizionamento ha già spaccato un’alleanza che per Orbán non è secondaria: il gruppo di Visegrad (noto anche come V4). Questo asse è nato nel 1991 nella città-castello di Visegrad, appunto, a pochi chilometri a nord di Budapest, sul Danubio. Allora si erano riunite l’Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia (oggi Repubblica ceca e Slovacchia ne fanno parte). Il V4 è una cooperazione politica, militare ed energetica che promuoveva l’integrazione dei paesi aderenti all’Ue ed è diventato ancora più rilevante nel 2004, quando queste quattro nazioni hanno fatto il loro ingresso nell’Unione. Negli ultimi anni il V4 si è di nuovo trasformato ed è diventato di fatto un gruppo ostile nei confronti di Bruxelles e delle imposizioni dell’Europa dell’est. L’ostilità si è mostrata in vari modi ed è stata guidata in particolare dall’Ungheria e dalla Polonia, molto allineate nella loro lotta politica e culturale contro quella che loro chiamano l’ingerenza continua del mainstream liberale nei loro affari. Detto molto in sintesi: Ungheria e Polonia vorrebbero che l’Ue fosse un bancomat che dà fondi e basta.

La guerra di Putin in Ucraina ha spezzato questa alleanza al punto che, all’ultima riunione del V4 organizzata da Orbán, i polacchi e i cechi hanno affermato che non sarebbero andati. La separazione della Polonia è vistosa: non è una novità che Budapest pencoli verso l’est, tra Russia e Cina, ma finora Varsavia era stata abbastanza conciliante, si turava il naso forse, perché la battaglia dentro l’Europa era più importante. Ora non più, lo strappo si è consumato e oggi sembra stato indolore, ma si stanno ridisegnando molte alleanze, equilibri e il fatto che la Repubblica ceca mandi carri armati in Ucraina quando l’Ungheria non permette nemmeno ai rifornimenti della Nato di transitare sul proprio territorio non resterà senza conseguenze.

Poi c’è la scommessa su Putin. In questo momento anche chi ha per vent’anni contato sulla possibilità di dialogare con il presidente russo non è più tanto sicuro: evidentemente le categorie di convenienza e di convivenza che abbiamo sempre applicato alla Russia putiniana non valgono più. Orbán, in controtendenza, invece pensa che costruire un ponte ideologico ed economico con Putin sia una scelta strategica vincente. Per questo ha iniziato a pagare il gas russo in rubli (alla faccia del nazionalismo ungherese!), per questo guarda goloso alla Transcarpazia, la regione ucraina che fino all’inizio del Novecento era ungherese e che è abitata dalla minoranza ungherese (se Mosca nega l’esistenza dell’Ucraina, allora la Transcarpazia può tornare all’Ungheria). In questo è molto simile alla Serbia di Vucic, che ha iniziato un gioco pericoloso di avvicinamento all’Ue e contemporaneamente a Putin, come se le due cose possano ancora coesistere. Orbán insomma crede di potersi fidare e che il Cremlino si fidi di lui. Però l’affidabilità di Putin è quantomeno compromessa, quindi o il premier ungherese ambisce a diventare il mediatore invero poco neutrale di questa crisi, o a diventare come il dittatore bielorusso Lukashenko, un alleato sottomesso e disposto a tutto per compiacere Mosca. In ogni caso il rischio di aver sbagliato i calcoli si fa per lui molto alto.