Ci sono molte immagini iconiche che raccontano il dramma delle migrazioni. Le immagini dei corpi gonfi d’acqua e riversi, senza vita, sulle coste libiche dopo i naufragi. Quelle delle persone salvate in mare dalle Ong, la fotografia del piccolo Alan Kurdi morto sulle coste di Budrum, in Turchia nel 2015, mentre con la sua famiglia in fuga dalla guerra siriana cercava di raggiungere l’Europa. Anche l’inizio di questa estate è segnato da istantanee che fermano un volto, un’emozione, un abbraccio, il momento in cui il terrore di morire è finalmente alle spalle. Le immagini stavolta arrivano da Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, dove nelle ultime settimane sono arrivati nuotando o a piedi 9 mila migranti, molti giovanissimi, molti bambini.
Una foto che racconta l’ennesimo dramma delle traversate e dei respingimenti ci restituisce il volto di un uomo della Guardia civile spagnola. Sta salvando un neonato che rischiava di annegare. L’uomo porta il bambino verso l’alto: lo sta salvando dalle onde e allo stesso tempo lo mostra alla coscienza di chi guarda. Il piccolo ha il volto rivolto verso il basso, un cappellino a coprire la nuca, sulle mani dei piccoli guanti. Un’altra immagine rappresenta un giovane ragazzo che era riuscito ad arrivare a Ceuta galleggiando su bottiglie di plastica ma a pochi metri dalla spiaggia di El Tarajal ha notato i soldati spagnoli che lo attendevano e, disperato, ha tentato la fuga arrampicandosi su di un muro. Prima di essere catturato e accompagnato in un centro per le espulsioni. È l’immagine che tiene insieme il principio che anima chi scappa, «arriverò in Europa a tutti i costi», e le politiche che continuano a respingere.
Che dire poi dell’immagine che ritrae una volontaria della Croce rossa nell’atto di abbracciare un migrante appena arrivato? A immortalare il momento l’agenzia Reuters, nel video prima che nella foto si intuisce la dinamica dell’attimo: la volontaria, Luna Reyes, aiutata da un soldato, sostiene un migrante in modo che possa espellere l’acqua di mare bevuta tentando di raggiungere la costa. La giovane prova a calmarlo. Mentre lui è diviso tra incredulità, sollievo e disperazione, lei lo abbraccia. Nel video si possono ascoltare in sottofondo le voci di altri migranti che reclamano prima di essere portati via dai funzionari dalla Guardia civile spagnola ed espulsi in Marocco.
Luna Reyes ha 20 anni, sua madre è originaria di Ceuta ma la sua famiglia vive nei pressi di Madrid. È arrivata nell’enclave spagnola a marzo per un tirocinio, necessario per completare gli studi in integrazione sociale. Dopo che la fotografia con la persona migrante ha fatto il giro del mondo, anche l’odio è diventato virale. La giovane è stata sommersa di messaggi duri, insulti xenofobi e sessisti su ogni social media. In poche ore, nonostante molti utenti la supportassero con l’hashtag #GraciasLuna, ha deciso di chiudere o rendere privati i suoi profili, per cercare di lasciarsi alle spalle quel carico di violenza verbale espressa da comuni utenti e da gruppi più organizzati, come il partito di estrema destra Vox. «Quel ragazzo era solo disperato», ha detto Luna Reyes. «L’ho solo abbracciato e l’ho fatto perché era la cosa più normale e naturale del mondo. La più spontanea risposta a una richiesta d’aiuto». Il giovane era disperato anche perché aveva perso le tracce di un amico che aveva viaggiato con lui.
In pochi giorni diverse migliaia di persone sono state respinte e riportate in Marocco sulla base degli accordi bilaterali che dal 2015 legano Rabat e Madrid in materia di immigrazione. I respingimenti spagnoli sono sotto accusa di numerose organizzazioni umanitarie poiché non considerano le ragioni individuali che inducono le persone a partire ed espongono i rimpatriati a pericoli nei Paesi di provenienza. La Spagna, lungi dal modificare le politiche attuate finora e apparentemente non preoccupata di incorrere di nuovo in una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani, reitera la pratica dei rimpatri come unica soluzione possibile, come se non esistesse il principio sancito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati che recita: «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà (...) un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Se diversi Stati europei sembrano coerenti e compatti nel respingere i migranti senza rischiare sanzioni, lo stesso non può dirsi per l’operato di chi accoglie. Luna Reyes, intervistata dalla televisione spagnola, ha dichiarato che «non era preparata né a un tale numero di arrivi, né a un tale carico d’odio».
L’Europa è solida nel perseguire politiche di esternalizzazione dei confini. I respingimenti non vengono effettuati direttamente dalle istituzioni degli Stati membri perché vietate dal Diritto internazionale, così negli ultimi anni gli Stati più coinvolti dal fenomeno migratorio hanno finanziato e sostenuto istituzioni fragili, come la Guardia costiera libica, e stretto accordi economici con i Paesi di transito e provenienza affinché venisse impedito alle persone di partire alla volta dell’Europa. Una direzione determinata dal vento xenofobo che si è diffuso nel Vecchio Continente negli ultimi anni e che, come un effetto domino, continua a produrre le stesse condizioni che l’hanno generato. Sebbene gli sbarchi siano crollati dopo l’attuazione di politiche di contenimento dei confini, l’opinione pubblica resta dominata dalla paura del diverso che esprime con rabbia e violenza. Come nel caso di Luna Reyes.
Era già successo con Josefa, una 40.enne del Camerun salvata da Proactiva open arms nel 2018. Reduce da un naufragio e unica superstite, nei giorni successivi al salvataggio fu accudita dalle operatrici umanitarie che le posero dello smalto sulle unghie, per farla sorridere un po’. Servirono 4 giorni di navigazione per raggiungere la Spagna. Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno italiano, aveva chiuso i porti e sebbene per prossimità geografica Open arms avrebbe dovuto sbarcare in Italia, fu alla fine destinata alla Spagna. Sia Josefa che le sue soccorritrici subirono una campagna d’odio. L’Ong fu accusata di aver inventato il naufragio e aver fotografato la povera donna con il solo obiettivo di provocare compassione. Per giorni si parlò solo dello smalto di Josefa e della foto «contraffatta». Mai di politiche migratorie. Mentre la denuncia di Open arms – cioè che le persone a bordo del gommone su cui viaggiava Josefa fossero state abbandonate in mare di proposito dalla Guardia costiera libica – passò in secondo piano.
Sono passati tre anni da allora. Le politiche europee non sono cambiate. Hanno al contrario reso più netta la linea di indirizzo: bloccare le partenze, aumentare i rimpatri. Di recente durante una operazione di sbarco a Pozzallo anche le autorità italiane, oltre alle Ong, sono state insultate da un gruppo di cittadini presenti al porto. La nave appena arrivata trasportava 400 persone, tra loro 150 minori. Le voci delle persone migranti sono sempre meno ascoltate, l’azione umanitaria sempre più delegittimata. E il circolo continua. Respingere il diverso, insultare l’azione generosa dei gruppi umanitari e non provare nemmeno una volta a risolvere un fenomeno destinato a non interrompersi e che necessita politiche con un orizzonte molto lungo. Più lungo certamente di un insulto postato su Twitter o Facebook.
Quell’odio contro chi aiuta
La volontaria insultata per avere abbracciato un migrante a Ceuta e il discusso smalto di Yosefa. L’azione umanitaria è sempre più delegittimata mentre parte dell’Ue continua con la pratica dei respingimenti ciechi
/ 31.05.2021
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi