Rinunciare al carbone? No, al massimo ne riduciamo il consumo. Così l’India, facendosi capofila del mondo in via di sviluppo, ha imposto la sua visione alla Cop26, la recente conferenza di Glasgow sui cambiamenti climatici. «È stata un successo», ha dichiarato un trionfante Bhupender Yadav. «Sono profondamente dispiaciuto», ha detto frenando le lacrime Alok Sharma. Yadav parlava come capo della delegazione indiana, Sharma, deputato britannico anche lui di origine indiana, come presidente della conferenza. Quelle parole così discordanti esprimono come meglio non si potrebbe l’abisso che separa in materia di clima l’Occidente industriale dal resto del mondo. È stata proprio l’India a proporre all’ultimo minuto una modifica lessicale al documento conclusivo, in forza della quale l’impegno richiesto alla comunità internazionale non è più quello di eliminare l’uso del carbone, sia pure gradualmente, ma soltanto di limitarlo.
Il successo vantato da Yadav è racchiuso in quella correzione: phase down al posto di phase out, come recitava la bozza originaria. Fra le delegazioni prostrate dalla lunga maratona negoziale si potevano registrare il convinto appoggio cinese alla proposta indiana, l’acquiescenza dell’altro massimo inquinatore, gli Stati uniti, la disperazione dei Paesi insulari ormai con l’acqua alla gola, la rassegnazione dei più. Il colpo finale di Yadav è giunto inaspettato, peggiorando la posizione illustrata dal primo ministro Narendra Modi che aveva garantito l’adesione indiana all’impegno di limitazione delle emissioni previsto dall’accordo di Parigi del 2015, ma rinviandone la conclusione fino al 2070.
Ecco dunque l’India protagonista in negativo della conferenza, che secondo la retorica imposta dalle buone maniere diplomatiche avrebbe comunque prodotto un «accordo storico», ma che i climatologi e la piazza vociferante che si raccoglie attorno a Greta Thunberg qualificano come un fiasco totale. A causa di quell’intesa annacquata il mondo ambientalista costringe l’India sul banco degli accusati. Come reagisce all’accusa? Ecco di nuovo le parole di Yadav, che a New Delhi svolge il ruolo di ministro dell’Ambiente: «Il mondo deve convincersi che l’attuale crisi climatica è precipitata a causa degli insostenibili stili di vita e dei modelli di consumo dei Paesi sviluppati». È difficile dargli torto, ma gli indici che misurano il surriscaldamento del pianeta puntano ormai verso il disastro. Ci si può forse arrendere per una questione di principio?
Del resto l’India è intessuta di contraddizioni. A cominciare da quella che contraddistinse la sua nascita come Paese indipendente: la divisione su base religiosa della colonia britannica, la fuga degli indù e dei musulmani dalle aree a popolazione mista, una duplica diaspora e un bagno di sangue, le contestazioni di frontiera fra i due Paesi usciti dalla decolonizzazione. Tutto questo dopo una lotta di liberazione che Mohandas Gandhi aveva fondato sulla non-violenza. Un retaggio tradito, quello del Mahatma, i due Paesi che devono la loro esistenza alla sua predicazione pacifista da sempre si guardano in cagnesco, più volte la reciproca ostilità è sfociata in guerra aperta suscitando l’apprensione del mondo, se non altro perché India e Pakistan custodiscono entrambi minacciosi arsenali atomici.
Proprio qui si annida un’altra contraddizione indiana. Siamo di fronte a un Paese che attinge alla sua tradizione culturale un elevato livello scientifico e tecnologico. Dotata di importanti centri di ricerca, in posizione d’avanguardia nella matematica e nella fisica, l’India può permettersi non soltanto di produrre il quattro per cento del fabbisogno energetico con le sei centrali elettronucleari (molte altre in programma) e di equipaggiare con il nucleare le sue forze armate, ma anche di spedire satelliti nello spazio e di competere alla pari con qualunque Paese in ogni settore teorico o sperimentale. Eppure ospita estesissime sacche di miseria estrema, uno spettacolo che stringe il cuore a chi visita certe sterminate periferie urbane. Non è certo la popolazione nel suo insieme a beneficiare del lavoro degli scienziati e dei tecnici che sa mettere in campo.
Si tratta di una popolazione in rapidissima crescita, che si appresta nel prossimo futuro a varcare due soglie demografiche. La prima è quella del miliardo e mezzo di abitanti, la seconda il superamento della Cina come Paese più popoloso del mondo. Infatti il tasso di crescita in India è superiore a quello dell’altro gigante asiatico. Il confronto dei dati permette di prevedere che il sorpasso avverrà entro questo decennio. Il peso della sovrappopolazione, così evidente nelle brulicanti metropoli di Mumbai o Calcutta, grava su ogni progetto di sviluppo. Proprio qui sta una delle chiavi per comprendere l’atteggiamento di New Delhi sulla questione climatica.
Il primo ministro Modi lo ha detto chiaramente al G20 di Roma che precedette la conferenza di Glasgow: «Non ci si può chiedere di adottare misure che frenino lo sviluppo». Da quella miseria dilagante, e da un prodotto interno lordo nominale pro capite di poco superiore ai duemila dollari l’anno (meno di ottomila a parità di potere d’acquisto), che colloca l’India fra i Paesi più poveri nella graduatoria del reddito, scaturisce la necessità di uno sviluppo senza limiti. Anche a costo di turbare i sonni a quegli occidentali che, come si dice a New Delhi, dopo avere avvelenato il mondo pretendono di scaricare sui meno abbienti l’onere del risanamento. Sviluppo senza limiti: ma ne vale la pena?
La risposta è nell’ennesima contraddizione indiana. Nel caso la situazione climatica dovesse precipitare, avvitandosi in una spirale non più reversibile, a finire sott’acqua sarebbero non soltanto Venezia, le altre città costiere e i piccoli Stati insulari dei Caraibi e del Pacifico, ma anche una vastissima parte del territorio indiano, in particolare quella che si affaccia sul Golfo del Bengala attorno all’immenso delta del Gange-Brahmaputra. L’India condivide questo destino con il confinante Bangladesh, si tratta di un’area di altissima densità demografica, oltre 900 abitanti per chilometro quadrato, molti di loro vivono poco al di sopra del livello del mare.
Le alluvioni dunque sono di casa, provocate dai cicloni tropicali che rovesciano torrenti di pioggia e ostacolano il deflusso delle acque fluviali, soprattutto dopo che il cambiamento climatico li ha resi ancor più potenti. Si cerca di correre ai ripari rafforzando l’ecosistema con la riforestazione, interventi doverosi ma insufficienti, perché all’effetto dei cicloni si aggiunge quello dell’innalzamento delle acque marine. La prospettiva è sconvolgente: decine di milioni di persone, in India e Bangladesh, rischiano in un futuro sempre più vicino di perdere casa e mezzi di sussistenza. Di fronte a questo scenario forse New Delhi finirà con il riconsiderare i suoi programmi di sviluppo alimentati ancora dal carbone. Perché la conferenza di Glasgow non è stata affatto un successo, nemmeno per l’India.
Quell’ideale di sviluppo senza limiti
India, le contraddizioni di un Paese protagonista in negativo della Cop26, la conferenza di Glasgow sui cambiamenti climatici
/ 29.11.2021
di Alfredo Venturi
di Alfredo Venturi