Per quanto romantica possa apparire la vicenda di Bannu e del generale francese (articolo a lato), essa chiama in causa due usanze che di romantico hanno ben poco: quella dei matrimoni precoci, una decisa violazione dei diritti umani ricorda l’Unicef (Bannu fu un’adolescente che sposò un uomo molto più vecchio di lei), e quella della «sati» – in sanscrito «la buona», «la fedele» – una pratica che prevede il sacrificio delle vedove sulla pira funeraria del marito deceduto. «Quest’ultima nasce nel contesto dell’induismo – spiega Tommaso Bobbio, docente di Storia dell’India all’Università di Torino – e viene giustificata adducendo motivazioni morali e religiose: la donna, in quanto legata anche spiritualmente alla figura del marito, abbandona questa vita nel momento in cui la lascia lui, quasi a perpetuare il vincolo matrimoniale. È un gesto che dimostra totale devozione. Vale la pena ricordare che nella tradizione induista la vita non finisce con la morte. Questa è solo un passaggio da un’esistenza a quella successiva, in un ciclo di continue rinascite». Ci sono anche ragioni economico-sociali sottese alla «sati», aggiunge l’esperto. Ragioni collegate al ruolo femminile nella concezione indiana più tradizionale: quando la donna si sposa viene presa in carico dalla famiglia del marito in cambio del pagamento della dote (un altro elemento discutibile da considerare, ancora oggi diffuso nel paese, che ha un grande impatto soprattutto nei contesti famigliari più fragili). «La donna, insomma, è considerata un peso economico. Se il consorte muore, la vedova diviene un problema per la famiglia del marito… La sati, espressione estrema di questo tipo di relazioni sociali, è una sorta di risposta al problema». Emerge qui, in tutta la sua forza, un aspetto fondamentale della questione, «quanto la sati fosse una scelta consapevole o una costrizione imposta dalla famiglia e da costumi sociali radicati. Tanto più che era vista come un punto d’onore per chi la praticava e il suo entourage».
Un’altra consuetudine diffusa, afferma il nostro interlocutore, è quella dell’allontanamento della vedova dal focolare domestico. Questa si ritrova sola (di rado la famiglia di origine l’accoglie di nuovo), in situazioni di povertà estrema, senza potersi riscattare in alcun modo. Sottolinea Bobbio: «Accade anche oggi di vedere anziane signore, in miseria, vestite di bianco, il colore del lutto, che vivono per strada o in case comunità». Tornando alla «sati», si tratta di un’usanza di cui ci sono rimaste testimonianze molto antiche. «Il primo riferimento esplicito a questa pratica in sanscrito – si legge sull’Enciclopedia Britannica – appare nel grande poema epico indiano Mahabharata (compilato intorno al 400 d.C.). La pratica è menzionata anche da Diodoro Siculo, autore greco del I secolo a.C. (...)». Bobbio avverte: le certezze sono poche.
Anche quanto fosse diffusa è materia di discussione. «Non era comunque praticata solo da una casta in particolare. Quando francesi e – da metà Settecento – inglesi giunsero in India, conquistando porzioni di territorio, notarono la sati insieme ad altre consuetudini: la giudicarono una pratica barbara. Nelle menti dei colonizzatori, quella indiana era una società primitiva da civilizzare, liberandola da usanze irrazionali e dannose». Nei primi decenni dell’800 – continua il docente – la «sati» è un tema di discussione nella società inglese, vi sono dei dibattiti in Parlamento a riguardo. La pratica – insieme alla descrizione delle «misere» donne indiane, vittime sacrificali inconsapevoli – entra nella letteratura ottocentesca, non solo anglosassone. Anche Il giro del mondo in ottanta giorni (1872) di Jules Verne ne parla: giunto in India, il gentiluomo inglese Fogg si trova di fronte a un drappello di persone che sta conducendo una vedova verso la pira del marito. Interviene e la salva.
«A inizio ’800 – dice Bobbio – pure nei circoli intellettuali indiani si discute tanto di sati, soprattutto a Calcutta, nel Bengala, in contrapposizione ma anche in dialogo con gli inglesi». La pratica viene abolita già nel 1829 ma, come spesso capita, le usanze sono dure a morire. Casi di «sati» si verificano infatti anche nel Ventesimo secolo, come quello di Roop Kanwar, una vedova di 18 anni arsa viva nel 1987 dopo la morte del marito 24.enne. «Fu una vicenda che fece scalpore. Un atto praticato alla luce del sole. L’opinione pubblica si spaccò: da un lato chi difendeva l’azione volontaria della ragazza e dall’altro chi sosteneva fosse stata uccisa. Ci furono dei processi; gli imputati vennero tutti assolti». Di certo la mentalità che ha permesso il perpetuarsi di tale usanza è da ricollegare alla visione tradizionale della donna indiana, afferma Bobbio. «Nascere donna in India è ancora uno svantaggio. Lo dimostrano il fenomeno dell’aborto preventivo dei feti femmina e delle spose bambine, le violenze domestiche all’ordine del giorno. Ma bisogna stare attenti a non assumere gli occhi dei colonizzatori inglesi che si sentivano superiori... La sati – da condannare, come l’emarginazione delle vedove – riflette una condizione di subordinazione della donna presente, in altre forme, anche nelle nostre società».
Quelle vedove sacrificate
Cos’è la «sati» e come veniva giustificata
/ 18.07.2022
di Romina Borla
di Romina Borla