Quelle amiche-nemiche imprevedibili

Dall’Impero ottomano al «mediatore» Erdogan. Un viaggio nella storia alla scoperta delle relazioni complicate tra Turchia e Russia
/ 21.08.2023
di Alfredo Venturi

Recep Tayyip Erdogan ha di recente dichiarato che il rilancio dell’accordo con la Russia per l’esportazione di cereali dai porti del Mar Nero «dipende dai Paesi occidentali che devono mantenere le loro promesse», compiendo i passi necessari per fare dell’intesa sul grano la base di una trattativa di pace. «Penso che si possa trovare una soluzione», ha aggiunto riferendosi a una recente telefonata con Vladimir Putin, che dovrebbe incontrare entro fine mese. Ricordiamo che nel luglio scorso la Russia ha interrotto la sua partecipazione all’intesa in questione, negoziata dall’Onu e dalla Turchia circa un anno fa, che aveva l’obiettivo di mitigare la crisi alimentare a livello globale, consentendo l’esportazione in piena sicurezza del grano ucraino bloccato a causa del conflitto. Ankara, insomma, continua a voler mediare tra Putin e Zelensky e affermarsi conseguentemente come potenza di rango globale (leggi articolo di Lucio Caracciolo su «Azione» del 24 luglio 2023). Ma facciamo qualche passo indietro nella storia…

Il controllo degli Stretti, e fino alla fine dell’Impero ottomano la sovranità territoriale sui luoghi sacri del cristianesimo, sono gli elementi che più fortemente hanno caratterizzato le relazioni internazionali della Turchia. A volte questi due fattori si sono intrecciati, come accadde a metà del diciannovesimo secolo quando la guerra di Crimea, nata dopo un confronto fra gli Ottomani e la Francia sull’accesso ai luoghi sacri, allora in territorio turco, si sviluppò su altri temi, compreso quello della libertà di navigazione.

Era accaduto che l’imperatore dei francesi Napoleone III, desideroso di compiacere la folta componente clericale della sua maggioranza, aveva chiesto a ottenuto da Costantinopoli, anche attraverso una minacciosa esibizione di forza navale, certe agevolazioni al transito dei monaci cattolici per Gerusalemme che in pratica assicurava a quella parte della cristianità il controllo dei luoghi sacri. Immediatamente la Russia, che intendeva riservare quei vantaggi alla chiesa ortodossa o almeno considerare la cosa su un piede di parità, attaccò in armi la Turchia.

La Francia e la Gran Bretagna, quest’ultima preoccupata dalla prospettiva di perdere il controllo navale del Mediterraneo, accorsero in soccorso degli Ottomani, presto affiancate da un corpo di spedizione del Regno di Sardegna, che intendeva cogliere l’opportunità per proporre alle potenze d’Europa la questione dell’unità italiana. La mossa del primo ministro Cavour discendeva dal fatto che anche l’Austria aveva dato il suo appoggio politico alle potenze occidentali filo-turche, dunque a Torino si temeva una entente franco-austriaca che avrebbe potuto compromettere l’obiettivo unitario. Dopo due anni di conflitto sanguinoso, con la caduta di Sebastopoli la Russia fu sconfitta e dovette rassegnarsi allo status quo.

La vicenda s’iscriveva nel solco di una lunghissima storia. Già verso la fine del decimo secolo la Crimea era stata al centro di un conflitto fra l’allora Impero bizantino e la nascente Russia raccolta attorno ai Rus’ di Kiev. Attaccato da alcuni generali dissidenti, l’imperatore Basilio II non trovò di meglio che allearsi proprio con gli arcinemici di Kiev. Il loro re, Vladimir I, mandò un esercito in appoggio a Basilio, in cambio della promessa di un’unione matrimoniale che lo legasse al potere bizantino. Poi attaccò i generali ribelli in Crimea, sposò la sorella dell’imperatore, si fece cristiano e ordinò agli abitanti di Kiev di farsi battezzare in massa nel Dneper. Questa conversione non esattamente spontanea farà della Russia la sentinella del cristianesimo ortodosso.

Fin dai tempi dei Rus’ di Kiev, il Bosforo e i Dardanelli hanno esercitato sulla Russia una forte attrazione. Li consideravano una gabbia che frenava la libertà di movimento sulle rotte marittime. Il richiamo dei «mari caldi» è sempre stato irresistibile dalle parti di San Pietroburgo, la grande capitale immersa nel gelido Nord. In epoca sovietica la vecchia questione riemerse una volta ancora. Era il secondo dopoguerra e da tempo ormai la splendida metropoli dello Zar, che aveva dovuto rinunciare al suo fascinoso nome e si chiamava Leningrado, aveva ceduto a Mosca il ruolo di capitale. Nei primi anni Cinquanta del Novecento, dunque, fu Mosca a esercitare pressioni su Ankara perché la flotta sovietica potesse liberamente transitare attraverso gli Stretti fra Mar Nero e Mediterraneo. I turchi, che dopo la rivoluzione kemalista tendenzialmente gravitavano nel campo occidentale sospinti dalla casta militare, respinsero la richiesta russa. Il Governo dei soviet reagì ordinando una spettacolare parata navale. Fu per questo che la Turchia, desiderosa di coprirsi le spalle di fronte all’ingombrante vicino, chiese e ottenne l’adesione alla Nato.

La Turchia uscita dal retaggio ottomano è tutt’altra cosa rispetto alla superpotenza imperiale del passato, capace persino di risollevarsi da umiliazioni come l’assedio di Costantinopoli del 1204, quando la quarta crociata mutò direzione per volontà del doge veneziano Enrico Dandolo e mise a sacco la maggiore città cristiana del mondo. Eppure, certi capisaldi della politica estera turca hanno conservato la loro attualità nei lunghi decenni del declino ottomano. La sconfitta nella guerra contro l’Italia per il controllo della Libia innescò una serie di eventi che portarono alla disfatta nella Prima guerra mondiale e alla perdita dei Balcani, del Nordafrica e del Medio Oriente. L’impero dei sultani si ridusse alla sola penisola anatolica, e a quel pezzetto d’Europa attorno a Istanbul che comunque assicurò alla nuova repubblica l’eredità ottomana del controllo sugli Stretti.

Alcuni fattori, del resto, alimentano certe contraddizioni della strategia turca: la stretta relazione con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale affini per lingua e cultura, il rapporto critico fra l’appartenenza atlantica e l’identità musulmana, l’auto-candidatura all’Unione europea. Tutto questo ha portato la Turchia a una politica multiforme e spesso incoerente. Il conflitto fra Ucraina e Russia ha visto la volontà mediatrice del presidente Erdogan ostacolata da troppe ambiguità. Paese Nato che si professa al di sopra delle parti, non vuole tagliare i ponti con Mosca ma al tempo stesso ne condanna la politica e soprattutto la sua prosecuzione con altri mezzi, per dirla con Carl von Clausewitz.

Resta il fatto che ancora oggi il controllo del Bosforo è per la Turchia una carta cruciale, che stimola le sue ambizioni strategiche. La convenzione di Montreux prevede deroghe al libero transito delle navi appartenenti a Paesi in guerra. Dunque, l’operazione militare speciale di cui parlano i russi è una guerra? Accettando questa equiparazione, la Turchia ha chiuso il passaggio, con la sola eccezione delle navi in rotta verso la loro base. Ma fra le clausole della convenzione si annidano ambiguità e dubbi interpretativi, soprattutto sui traffici non militari. Una quota significativa del petrolio esportato da Mosca via mare passa davanti alle cupole di Istanbul: ecco perché il Cremlino guarda con inquieta attenzione a questo imprevedibile amico-nemico.