Quell’America che esalta le armi

La strage in una scuola elementare di Uvalde nel Texas, costata la vita a 21 persone, è solo l’ultimo episodio, ma il fatto che le vittime siano bambini ha riacceso il dibattito in una nazione in cui convivono due anime opposte
/ 06.06.2022
di Federico Rampini

Il presidente degli Stati Uniti è quasi un cittadino inerme come me, quando si tratta di contrastare la diffusione delle armi in America. Dopo la strage di bambini in una scuola elementare del Texas il copione si ripete. Ogni tragedia viene seguita da un coro di appelli che vengono dalla maggioranza, per leggi più severe sulle armi. Una minoranza cospicua con potere di veto si oppone, sostiene che il problema sono gli esseri umani che le usano, non le armi. Al Congresso mancano i voti per riforme radicali; tra i 50 Stati Usa quelli governati dalla sinistra che hanno già norme restrittive le inaspriscono, gli altri no. Sembriamo condannati a girare in tondo, malgrado un bilancio crescente di sangue e di dolore?

Uno degli ostacoli invocati è il Secondo Emendamento alla Costituzione che stabilisce il diritto alle armi. Nacque dopo la lotta d’indipendenza dal colonialismo britannico: due secoli e mezzo fa. Visto che gli Stati Uniti non avevano un esercito regolare bisognava contare su delle milizie partigiane (esercito popolare fatto di volontari) e autorizzarle a tenersi i fucili in casa. Relazione con la realtà di oggi: zero. Peraltro lo stesso Emendamento stabilisce che quel diritto va «regolato» per legge, dunque nulla osta a mettere robuste barriere.

La lobby delle armi usa questi precedenti storici per promuovere un’ideologia diversa e molto contemporanea. Bisogna leggersi i proclami dei veri estremisti delle armi. Non dipingono affatto un Far West dove lo Stato è assente e quindi bisogna difendersi da soli contro i criminali. I veri ideologhi della destra ce l’hanno con uno Stato che secondo loro è troppo vicino, incombente, minaccioso. Uno Stato dove i burocrati federali sono pronti a entrare nelle loro case e portargli via le armi. Per impedirgli di resistere a difesa delle loro libertà.

Io di armi non ne possiedo. In molti me lo chiedono: dopo 22 anni che abito in America, ed essendo anche diventato un cittadino degli Stati Uniti, tanti miei amici danno per scontato che anch’io «faccio come tutti gli americani». No, non tutti gli americani hanno pistole o fucili in casa, o nel cruscotto dell’automobile. Le statistiche dicono che una maggioranza di noi non possiede armi. Anche questa è una verità importante. Ci sono zone degli Stati Uniti, per esempio la città dove ho vissuto e quella dove vivo, San Francisco e New York, dove le leggi sulle armi sono simili a quelle europee. È difficile comprarle, è vietato girare armati, e anche per tenerle in casa bisogna avere dei permessi speciali. Chi abita in queste città di solito approva queste leggi più severe.

Esiste anche una realtà dissonante e scomoda: una cultura delle armi che non ha niente a che vedere con i suprematisti bianchi, l’estrema destra, Trump. Ci sono afroamericani che vogliono un fucile carico a portata di mano perché sul marciapiede di fronte a casa loro le gang spadroneggiano. È il fenomeno della violenza «black on black» – tra neri o anche tra ispanici – responsabile di una strage quasi invisibile perché i media non vogliono evocarla. Ci sono donne che vogliono il porto d’armi, e frequentano il poligono di tiro per addestrarsi a sparare, perché nel quartiere dove abitano temono le aggressioni. A New York nel 2022 si è insediato un nuovo sindaco, Eric Adams, che per vent’anni lavorò nella polizia. Lo hanno eletto soprattutto gli abitanti dei quartieri meno ricchi della città (Bronx, Brooklyn, Queens, Staten Island) dopo un biennio di recrudescenza della criminalità violenta. La cultura delle armi che ha messo radici profonde nelle bande giovanili black e ispaniche, esaltata dai rapper, è stata uno dei primi bersagli di Adams. Il sindaco ha lanciato una campagna per sequestrare armi tra quei giovani; ha proposto leggi ancora più severe. Ma non basta che le norme siano restrittive a New York: chi vuole un’arma la trova al mercato nero, o la ruba, o va a comprarla in uno Stato vicino dove la legislazione è lassista. A New York come a Chicago, Oakland, ogni anno abbiamo una lunga scia di «morti per caso», a volte bambini uccisi da una raffica sparata al vento, troppo vicini a una faida tra gang, o parenti di qualche pregiudicato.

La strage del Texas è avvenuta quasi dieci anni dopo un’altra ecatombe in una scuola elementare: Sandy Hook. Un episodio eccezionale per l’epilogo, che apre qualche speranza. Nel 2022 Sandy Hook è stata la prima sparatoria a costare cara all’industria delle armi. La Remington, produttrice del fucile Bushmaster AR-15 con cui il ventenne Lanza fece il massacro dei bambini nel 2012, è stata condannata da un tribunale del Connecticut a versare 73 milioni di dollari ai genitori di alcune vittime. Si è trattato della più costosa condanna di un fabbricante di armi per una sparatoria di massa. I legali dei genitori di Sandy Hook sono riusciti a dimostrare che il produttore del fucile aveva violato una legge sulla protezione del consumatore nello Stato del Connecticut: facendo pubblicità tra i minorenni a un’arma che non possono acquistare. La vittoria in tribunale all’inizio del 2022 venne salutata come una potenziale svolta nella campagna per rendere l’America un po’ meno armata e un po’ meno pericolosa. Bisogna essere cauti, però. La strategia che consiste nell’attaccare l’industria delle armi sul terreno economico, s’ispira al precedente delle mega-cause giudiziarie contro Big Tobacco, per far pagare ai produttori di sigarette i danni del cancro ai polmoni. L’idea è attraente ma ha dei limiti. Guardiamo al caso concreto. La marca di fucili Bushmaster al momento della strage era di proprietà di un celebre fondo d’investimento speculativo, Cerberus Capital Management. Cerberus aveva fuso tra loro diverse marche di armi, usando il nome più «prestigioso» che è quello della Remington, come azienda capogruppo. Dopo la strage di Sandy Hook la Remington ha fatto bancarotta ben due volte, e c’è chi sospetta che i fallimenti a ripetizione siano serviti ad allungare i processi nonché a ridurre il capitale disponibile per i risarcimenti. Infine, il verdetto sui 73 milioni di indennizzi che conseguenze ha, esattamente? A pagare quella somma non è la Remington-Bushmaster, sono le quattro compagnie assicurative dell’azienda ormai defunta. Il danno è sfuggente.

C’è chi spera però che la strategia economica possa avere un seguito. Si ricorda un precedente in un altro business. Negli anni ’60 e ’70 i dirottamenti di aerei erano frequenti negli Stati Uniti, per motivi politici o richieste di riscatto. Erano considerati un costo inevitabile per la libertà di volare. La prospettiva di introdurre controlli e metal detector negli aeroporti era giudicata un costo insostenibile dalle compagnie aeree, timorose che i passeggeri sarebbero spariti pur di non subire simili disagi. Ci volle la minaccia di un gruppo di dirottatori di schiantarsi su un deposito nucleare, e l’incubo dell’indennizzo che la compagnia aerea avrebbe dovuto versare, a far voltare pagina: i metal-detector divennero ubiqui (anche se non bastarono a impedire l’11 settembre). Molti stanno cercando il punto debole del business delle armi, per costringerlo a voltare pagina.