L’albero di Natale principale dell’Ucraina quest’anno non sarà quello di Kiev ma quello di Bucha. Gli abitanti della città-martire diventata il simbolo dell’atroce occupazione russa hanno risposto alla domanda del sindaco Anatoliy Fedoruk sull’opportunità di installare un albero, e l’enorme abete è stato portato nella piazza centrale da una gru. Anche l’albero nella Piazza Sofiyska della capitale sarà un simbolo della «incapacità di piegarsi» che gli ucraini quest’anno hanno scoperto essere parte del loro carattere nazionale.
Alto dodici metri – soltanto un terzo del magnifico albero che nel 2021 aveva illuminato tutta la piazza – sarà a sua volta una «punkt nezlamnosti», come si chiamano quei centri di emergenza allestiti nelle cantine, nelle scuole o addirittura nelle tende dopo i raid missilistici russi, dove i cittadini rimasti senza luce, calore e acqua per colpa delle bombe possono ricaricare il telefono, scaldarsi e lavarsi. Finanziato interamente dai mecenati di Kiev, l’albero avrà ghirlande a basso consumo, alimentate da un generatore a gasolio al quale potranno attaccare i loro apparecchi elettrici anche tutti i passanti che hanno bisogno di una ricarica. Le decorazioni saranno nei colori della bandiera nazionale, blu e giallo, e dopo le feste il potente generatore verrà donato all’esercito. Il Natale in Ucraina è un Natale in guerra e se Kiev dopo lunghe polemiche decide comunque di innalzare un albero all’aperto, Kharkiv, al confine con la Russia, è stata costretta a cedere, e l’abete che avrebbe dovuto rallegrare la piazza principale è stato sistemato sotto terra, nella sala di una delle stazioni della metropolitana, diventata un rifugio dai bombardamenti. Chi festeggia in piazza diventa un bersaglio dei russi ma la voglia di vivere, e di non piegarsi, spinge a correre il rischio. Non ci saranno comunque tutti i divertimenti che accompagnano le festività di fine anno, come fiere, concerti all’aperto e piste di pattinaggio, e ovviamente non ci saranno luminarie, in una metropoli afflitta da blackout dopo che molte centrali elettriche sono state colpite da missili russi.
Ma la parte più difficile delle feste è la separazione delle famiglie: un milione di uomini sono sotto le armi, al fronte, e in molte famiglie a sedersi alla tavola del cenone saranno soltanto le donne e i bambini. Milioni di altre famiglie sono scappate dalle loro case: almeno 3 milioni di ucraini sono rifugiati all’estero e altri 7 milioni hanno dovuto lasciare i luoghi dove vivevano senza aver abbandonato il loro Paese. Quasi due milioni di ucraini si trovano in Russia: qualcuno è fuggito volontariamente, soprattutto dal Donbass e da Kherson, dopo aver collaborato con gli invasori, ma molti altri sono stati costretti dalle autorità russe, in una deportazione di fatto. La guerra ha spaccato anche famiglie altrimenti unite: parlare con i parenti dall’altra parte del confine è diventato difficile quando non impossibile e, mentre il Cremlino insiste a chiamare gli ucraini «popolo fratello», rapporti tra fratelli e sorelle, genitori e figli si spezzano sotto il peso della propaganda russa, da un lato, e delle bombe russe dall’altro.
L’Ucraina e la Russia avranno questo anno due Natali diversi, a cominciare dalle date: la Chiesa ortodossa di Kiev ha deciso infatti di adattare il suo calendario a quello universale europeo, mentre il patriarcato di Mosca insiste a osservare il calendario giuliano, indietro di 13 giorni, per cui la nascita di Cristo si celebra il 7 gennaio. Ma se in Ucraina si stanno riscoprendo anche tradizioni festive nazionali come i regali per il giorno di san Nicola il 6 dicembre o i riti divinatori insieme al pane speciale per Sant’Andrea il 13 dicembre, in Russia la festa principale resta ancora il Capodanno, imposto da Stalin come sostituzione laica del Natale. Anche dall’altra parte del fronte la guerra sta cambiando il modo di festeggiare: San Pietroburgo ha iniziato la campagna cui hanno aderito decine di città (con la visibile eccezione di Mosca) per abolire le celebrazioni di fine anno e destinare i fondi risparmiati all’esercito. Non ci saranno alberi in piazza e luminarie in Siberia e negli Urali, saranno aboliti i concerti, le fiere di artigianato e le piste di pattinaggio sul Volga e nel Nord russo.
I sindaci promettono di destinare i soldi ai riservisti mobilitati, ma intanto molte famiglie stanno equipaggiando figli e mariti chiamati in guerra a proprie spese. In molte scuole e perfino asili ai bambini viene proposto di confezionare coperte e calzini per i soldati al fronte, mentre in molti uffici vengono organizzate raccolte di donazioni per l’esercito che sono volontarie soltanto sulla carta. Almeno 300mila uomini russi sono stati inviati al fronte soltanto negli ultimi due mesi, e la paura di molti è che subito dopo le feste, finiti i primi 10 giorni di gennaio, praticamente una vacanza di pranzi, cene, bevute, viaggi e svaghi, Vladimir Putin approfitterà dello stordimento nazionale per proclamare la seconda ondata della mobilitazione, forse insieme alla legge marziale, per schiacciare definitivamente ogni manifestazione di scontento.
Ma anche chi cerca di tuffarsi nella festa più amata, con l’albero, i regali, il cenone con l’immancabile insalata Olivier che il resto del mondo chiama «russa», la tv e le visite ai parenti, rischia di rimanere deluso. Le sanzioni hanno reso la spesa natalizia meno ricca e più costosa, i regali di produzione occidentale sono difficili o impossibili da trovare, dopo il boicottaggio di Hollywood la televisione trasmette solo vecchie commedie sovietiche e al concerto di fine anno manca la metà delle pop star, esiliate o censurate perché contrarie alla guerra. Il Capodanno non porta più magia e attesa del miracolo, e il segno più evidente dell’angoscia di fine anno arriva curiosamente proprio da Putin. Il presidente russo infatti ha cancellato due appuntamenti di fine anno classici quanto lo Schiaccianoci al Bolshoi: la grande conferenza stampa e la linea diretta televisiva con i russi, durante la quale distribuiva regali e rispondeva alle suppliche dei suoi sudditi.