Si diffonde sui social l’hashtag #PrayforNigeria e davvero, col passare dei giorni dalla strage di Pentecoste nella chiesa cattolica San Francesco Saverio di Owo, poco altro sembra ci sia da fare. Le autorità non hanno nemmeno divulgato un elenco delle vittime, con nomi e cognomi. Tanto che diverse associazioni di donne si sono unite per lanciare una sorta di ultimatum al governo, affinché almeno questo modesto passo sia compiuto. Nel frattempo il bilancio, ancora provvisorio, è di una quarantina di morti e una sessantina di feriti. Ma nessuno dubita che non sia destinato a salire.
Non si capisce se la gigantesca Nigeria, il più popoloso paese africano, sia tramortita dall’inaudita violenza perpetrata contro inermi fedeli cattolici domenica 5 giugno. O se sia viceversa assuefatta, ormai indifferente di fronte alle sofferenze degli innocenti. Non solo chiese, anche scuole, collegi, autobus, mercati sono stati presi di mira in tempi recenti. Nel solo primo trimestre di quest’anno, calcola il centro di ricerche americano Council on foreign relations, circa tremila persone sono state uccise da gruppi armati in varie regioni del Paese. Il senso di insicurezza è diffuso. Eppure il massacro di Pentecoste non ha precedenti per gravità, premeditazione, spietatezza. È stato un atto di guerra contro famiglie in preghiera, vestite con gli abiti della festa. Gli assalitori, invece, avevano tute militari, dicono i testimoni. Hanno colpito prima con granate esplosive, poi con le armi automatiche hanno infierito sulla gente che scappava o cercava di nascondersi. Molti i bambini presi di mira. Chi può avere agito così ferocemente e perché?
Anche su questo silenzio ufficiale. E anche qui non si capisce se sia dovuto a senso di responsabilità – il timore che additare un colpevole suoni come un invito alla vendetta – o a paralizzante sgomento. O, peggio ancora, a inettitudine. Le uniche a parlare sono le autorità religiose, cristiane e musulmane, ansiose di far passare il messaggio che non si tratta di una guerra tra fedi diverse. La preoccupazione è fondata. «In Nigeria siamo più o meno metà cristiani e metà musulmani e viviamo insieme e vorremmo farlo in pace», ha detto al «Corriere della sera» il cardinale John Onaiyekan. Considerato che il Paese ha circa 200 milioni di abitanti, non è rassicurante immaginare il formarsi di milizie di autodifesa su base confessionale, intente a dare la caccia ai credenti di fede opposta, sul tragico modello della Repubblica Centrafricana.
In questa atmosfera di inquietante indeterminatezza, in assenza di rivendicazioni, l’opinione diffusa appare invece sicura e concorde. Sono stati i Fulani, dicono gli abitanti di Owo, i parenti delle vittime e a mezza voce anche i rappresentanti della Chiesa locale. I Fulani sono una delle maggiori etnie che compongono il mosaico nigeriano. Insieme agli Hausa – cui sono legati da ramificati vincoli di sangue, dalla lingua e dalla stessa fede musulmana, tanto da venir spesso indicati come un’unica famiglia umana, gli Hausa-Fulani – sono di gran lunga il più numeroso gruppo etnico della Nigeria. Da tempo immemore i Fulani sono allevatori, in perenne movimento dietro al loro bestiame in cerca di acqua e pascoli, nomadi per stile di vita e per mentalità, insofferenti di norme, vincoli e precetti che non siano quelli del Corano e del benessere delle loro mandrie. Per questo sono presenti un po’ ovunque nel Paese, pur essendo gente del nord; e per questo sono invisi a chi non condivida il loro stile di vita, cioè a quasi tutti gli altri. In special modo agli agricoltori, che vedono i campi seminati finire sotto gli zoccoli delle bestie, le riserve d’acqua prosciugate da mille abbeverate, i confini delle piantagioni invasi.
Il dualismo delle società tradizionali africane, divise tra coltivatori e allevatori, è onnipresente, dal Sudan al Kenya, dal Ruanda all’Uganda, dal Mali allo Zimbabwe. Così come lo sono i conflitti tra le opposte esigenze di questi due modi di vita. Da sempre i capi villaggio, gli anziani, sanno come ricomporre le tensioni originate dalla perdita di una parte di raccolto, o dall’abbattimento di un capo ad opera di agricoltori esasperati. Da qualche anno però questo mondo è andato in frantumi. La scarsità e l’irregolarità delle piogge, la sete crescente degli armenti, la miseria dei raccolti, l’alternarsi di siccità ed alluvioni, la penuria che serpeggia nei villaggi, sono andate trasformando le tensioni in una crescente lotta per le risorse, una guerra strisciante.
Su questo terreno disposto all’incendio ha poi preso a soffiare la predicazione jihadista. Le bande armate che sognano di asservire l’intera Africa occidentale al Califfato, riccamente finanziate e rifornite dalle organizzazioni-madre, hanno trovato a quanto pare seguaci tra i Fulani, non soltanto in Nigeria. Le armi automatiche hanno sostituito i vecchi fucili da caccia, le moto fuoristrada i cammelli. Oggi gli allevatori Fulani, la cui economia tradizionale è al tracollo, sono accusati di comportamenti malavitosi, dai rapimenti a scopo di riscatto al furto sistematico, alle vessazioni contro gli abitanti dei villaggi. Il governatore dello stato di Ondo, dove si trova Owo, aveva avuto con loro un confronto molto duro l’anno scorso, invitandoli a lasciare il territorio dello stato. La strage di Pentecoste sarebbe la loro vendetta, lungamente meditata e preparata.
È un’opinione diffusa, alla quale mancano prove. Non gli indizi, però. Formazioni paramilitari Fulani sono attive da tempo nel nord nigeriano: è possibile immaginare che siano scese a colpire molto lontano, quasi sulla sponda del Golfo di Guinea, trasformando anche i Fulani del sud da malviventi in terroristi. La stessa domenica del bagno di sangue a Owo, un attacco è stato compiuto più a nord, nello stato di Kaduna, contro alcuni villaggi. Il bilancio dichiarato è di 32 morti. I sopravvissuti sono sicuri che gli assalitori fossero Fulani, in sella alle motociclette e armati di kalashnikov. Stessa identica modalità degli attacchi dei jihadisti di etnia Peul (così vengono chiamati i Fulani nell’Africa francofona) contro gli agricoltori Dogon in Mali. Dunque #PrayforNigeria e non solo.