Quel tessuto amato da Gandhi

Fili di seta, il ruvido khadi, promosso dal Mahatma durante la lotta per l’indipendenza e poi scordato, sta tornando di moda
/ 29.08.2022
di Francesca Marino

Stavamo festeggiando, tutti. Travolti da un’ondata di patriottismo per i 75 anni dell’indipendenza indiana (il 15 agosto 1947 venne infatti proclamata l'indipendenza del paese, che fu diviso in due Stati: l'Unione indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan, a maggioranza musulmana). Per strada, ai balconi delle case, negli alberghi, nei negozi e perfino sul carrettino del fruttivendolo tutti, senza esclusione, avevano esposto bandierine e gonfaloni dell’India seguendo la richiesta del premier Narendra Modi. La nazione innalzava il «gran pavese», cene e feste condite di racconti di nonni e bisnonni sulla lotta per la libertà avevano in pratica preso il posto di «Game of thrones» e finalmente sembrava che l’aria di festa avesse messo d’accordo l’intera popolazione. E siccome dove ci sono cene e feste sorge, anche in India, il più annoso dilemma che essere umano abbia mai concepito, il famigerato «che mi metto stasera?», le discussioni prima del racconto di conquiste e atrocità servito tra kebab e crostini vertevano sul giusto outfit da indossare.

Stavolta però la risposta era unanime: khadi, ovviamente. La stoffa più patriottica di tutte, la più ecosostenibile, la più autarchica possibile. Il ruvido tessuto promosso da Mahatma Gandhi durante la lotta per l’indipendenza per finanziare l’autosufficienza economica degli indiani, scomparso dai radar per anni, adesso sta tornando prepotentemente di moda. Mi ricordo ancora quando, se volevi del khadi di cotone o di seta, dovevi andare a cercartelo negli empori statali chiamati «Gandhi ashram». Posti in cui il tempo si era fermato all’epoca del Mahatma e che probabilmente non venivano spolverati da allora. Le pezze di stoffa avevano spesso righe di annosa polvere sulla parte esterna dei rotoli, ed erano inamidate a un grado di rigidità tale da parere di carta. Soltanto anziani signori e gentildonne di un’altra epoca indossavano il patriottico khadi, filato sul charkha, la ruota che sta anche sulla bandiera indiana e con cui Gandhi veniva spesso ritratto.

Ai tempi della dominazione inglese, il cotone e la seta prodotti in India venivano esportati in Inghilterra. Le stoffe finite, che davano lavoro agli operai delle filande inglesi, venivano poi reimportate in India. Filando e tessendo i materiali in India, Gandhi boicottava il governo coloniale promuovendo l’indipendenza economica del paese. Ma il khadi, rigorosamente filato e tessuto a mano, era una stoffa ruvida, grezza e, finita la lotta per la libertà e dimenticate le bandiere ideologiche da una nuova generazione che, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, apprezzava molto di più lo chiffon francese, era stato relegato tra i ricordi e, appunto, nei «Gandhi ashram». Da dove, siccome costava poco e durava tanto, era migrato in principio nel guardaroba di studenti più o meno marxisti, hippy squattrinati e, dopo qualche anno, in quello delle signore radical-chic della buona società cittadina. Per fare adesso, in occasione dei 75 anni dell’indipendenza, un clamoroso ritorno nelle boutique di lusso. Con prezzi adeguati, ovviamente.

E mentre noi ci scambiavamo con aria da cospiratrici i migliori indirizzi per trovare quell’artigiano che fa ancora tutto a mano senza farti pagare un sari di khadi quanto un vestito di Prada, l’India si colorava di bianco, verde e arancio il giorno dell’indipendenza applaudendo al discorso di Narendra Modi che dichiarava: «Si è insinuata una stortura nel nostro modo di comportarci, e a volte insultiamo le donne. Possiamo promettere di liberarcene? È importante che nella condotta e nei discorsi non ci sia nulla che leda la dignità delle donne (…) dobbiamo fare in modo di garantire l’uguaglianza di genere (…) se figli e figlie non sono trattati allo stesso modo dentro casa, non c’è unità. L’uguaglianza di genere è un parametro cruciale dell’unità del paese», facendo scendere più di una lacrimuccia di commozione.

Stavamo festeggiando, tutti. Poi la festa è finita. È finita quando, dopo poche ore, i telegiornali hanno cominciato a dare una notizia sconvolgente: undici uomini, condannati all’ergastolo per stupro di gruppo e omicidio, erano stati liberati in occasione di un’amnistia promulgata per il giorno dell’indipendenza. E, di fronte alla prigione, distribuivano dolci a parenti e amici per festeggiare la lieta occasione. Gli undici criminali in questione sono colpevoli di aver stuprato una donna incinta, Bilkis Bano, dopo aver spaccato la testa di sua figlia su una pietra. Di avere stuprato e ammazzato sua cugina assieme al suo bambino di appena due giorni. Bilkis è viva soltanto perché era stata creduta morta. Gli undici «signori» erano tutti suoi vicini di casa.

La storia risale a molti anni fa quando in Gujarat, nel 2002, un treno che trasportava pellegrini indù era stato dato alle fiamme da un gruppo di musulmani. La reazione scatenata dall’episodio aveva provocato più di mille morti in tutto lo Stato, la maggioranza dei quali musulmani. Lo stupro di Bilkis e gli omicidi connessi erano stati uno degli episodi più efferati della vicenda. Adesso i suoi assassini e stupratori sono liberi, e un politico locale, commentando il fatto, dichiara: «Sono bramini, uomini di fede», per giustificare la loro liberazione. La reazione non si è fatta attendere. Gran parte dell’India, l’India dell’indipendenza e della lotta per la libertà, l’India che ha cacciato gli inglesi, si è ricompattata per un momento in modo trasversale, annullando differenze politiche e religiose. Chiedendo al governo di cancellare la decisione della Corte, riportando in galera quei criminali. Di fare in modo che le parole del premier non siano parole vuote, e che le bandiere esposte siano un simbolo di giustizia per tutti i cittadini. Che indossino o meno il khadi.