Sarà un sogno, una chimera, un’utopia, fatto sta che il desiderio di una pace definitiva ha attraversato i secoli mentre si susseguivano in ogni angolo del pianeta guerre sanguinose e crudeli. Histoire-bataille, si diceva non a caso per definire la narrazione degli eventi storici. Eppure l’idea che uno speciale assetto politico e giuridico possa garantire per sempre la pace non ha mai cessato di produrre proposte, progetti, formule per la soluzione concordata dei conflitti. Il primo a trattare organicamente il problema fu il ministro delle finanze di re Enrico IV di Francia, Maximilien de Béthune, duca di Sully. All’inizio del Seicento, cercando una formula che assicurasse finalmente la pace al Vecchio continente, immaginò un’Europa in cui i conflitti fra cattolici e protestanti fossero regolati dal principio della tolleranza. Il piano del duca aveva un grave difetto: tratteggiando un’Europa pacifica fondata sull’equilibrio fra le grandi e le piccole potenze, in tutto una quindicina di Stati, consacrava l’egemonia della Francia a scapito del potere asburgico. Lo schema non era fatto per reggere alla prova dei fatti: l’apocalittica Guerra dei trent’anni sconvolse il Continente.
Proprio sulla lezione di questa esperienza bellica si fondò la proposta che all’inizio del secolo successivo l’abate Charles-Irénée de Saint-Pierre condensò in un saggio dal titolo ambiziosissimo: «Progetto per rendere la pace perpetua in Europa». Scartata l’idea di affidare questa missione a una potenza egemone, l’abate di Saint-Pierre sosteneva che nemmeno l’equilibrio fra gli Stati poteva assicurare la pace. Infatti questo scenario induce a tenere la mano sull’elsa della spada, si tratta insomma non di pace ma di tregua armata fra potenze che si guardano in cagnesco. E basta un nonnulla perché le armi si trasferiscano dalle grandi manovre al campo di battaglia. La formula vincente secondo lui era una federazione di Stati. Parlò di Dieta d’Europa, arrivò a parlare di Unione europea! Ma gli negarono l’autorizzazione a stampare il suo libro in Francia, fu tradotto e pubblicato all’estero. Pochi decenni più tardi Jean-Jacques Rousseau rilanciò le sue idee, ma l’approccio tradizionale continuò a considerare la guerra uno strumento politico, come teorizzò Carl von Clausewitz.
Toccò a un grande filosofo, Immanuel Kant, il compito di riproporre un elaborato disegno di pace cercando di dimostrarne il carattere non utopistico. Il guaio è che il trattato «Sulla pace perpetua. Una proposta filosofica» uscì nel 1795, quando stava per abbattersi sull’Europa il ventennale ciclone guerresco di Napoleone. Ma ciò non toglie nulla alla profondità del pensiero di Kant che partiva da una considerazione: fino a quando gli Stati continuano a contrapporsi secondo l’istintivo stato di natura la sola forma possibile di pace è la sospensione delle ostilità. Ovviamente occorre ben altro, Kant separava nettamente questa condizione transitoria dal concetto di pace universale. Riprendendo l’idea dell’abate di Saint-Pierre formulò una serie di condizioni preliminari sulle quali poteva verificarsi una concreta volontà pacifica: nessuna riserva nei trattati di composizione dei conflitti, nessuna fusione ereditaria di Stati, abolizione degli eserciti permanenti, no ai debiti di guerra, uguaglianza dei cittadini, la libertà di ogni Stato garantita dall’impegno reciproco alla non ingerenza.
Dopo le guerre napoleoniche fu la Santa alleanza a organizzare la pace dei vincitori, riprendendo proprio quei principi del duca di Sully che l’abate di Saint-Pierre aveva tanto criticato: l’equilibrio fra le potenze che hanno avuto ragione di Bonaparte e la loro pressione egemonica volta a soffocare sul nascere ogni tentativo di turbare quella specie di pace. Durò fino a metà Ottocento, ma poi l’Europa esplose e le sue tensioni liberaleggianti lungamente represse diedero il via libera da una parte alle lotte per l’indipendenza che vedevano il concetto di Stato-nazione minare le fondamenta degli imperi multinazionali, dall’altra all’emergere di nuovi attori alla ribalta della storia: la borghesia che raccolse finalmente i frutti della rivoluzione francese e una classe operaia affamata di protagonismo.
Il grande obiettivo pacifista si ripropose durante il conflitto mondiale che dal 1914 al 1918 dissanguò la vecchia Europa. Nell’ultimo anno di quella che papa Benedetto XV definì «inutile strage» (ma come potrebbe una strage essere utile?), quando la fine delle ostilità e la vittoria dell’Intesa erano ormai a portata di mano, il presidente americano Woodrow Wilson elaborò una idilliaca sistemazione postbellica fondata sui suoi celebri quattordici punti. In particolare tre punti richiamavano l’attenzione del mondo stremato dal conflitto: i trattati di pace devono essere pubblici e non avere clausole segrete, gli Stati si impegnano a mantenere gli arsenali al minimo livello compatibile con la sicurezza interna, inoltre devono riunirsi in un’organizzazione permanente, la Società delle Nazioni, che deve risolvere pacificamente i conflitti. Ma il grido di pace di Wilson restò inascoltato. Soprattutto in patria: infatti il Congresso negò la partecipazione degli Stati uniti alla Società delle Nazioni e questa fu una delle ragioni, oltre alla mancanza di potere coercitivo, per cui l’organizzazione ginevrina, che pure risolse alcune questioni spinose come le dispute sulle regioni tedesche di frontiera, si rivelò un sostanziale fallimento.
Il clamoroso fiasco di Wilson e la fuga isolazionistica del suo Paese, che il Nobel per la pace all’autore dei quattordici punti non basta certo a compensare, contribuirono ad aprire la strada verso una nuova catastrofe bellica. Eppure si registrarono altri tentativi di disinnescare la bomba, come il patto di rinuncia alla guerra varato a Parigi nel 1928 e sottoscritto da decine di Paesi, compresi quelli che si affrontarono nel devastante conflitto all’orizzonte. Questo illusorio tentativo portava i nomi dei promotori, il segretario di Stato americano Frank Kellogg e il ministro degli Esteri francese Aristide Briand. L’inefficacia dell’iniziativa fu totale: le persone morte per cause di guerra negli anni successivi al patto Briand-Kellogg sono perfettamente in linea con l’impressionante bilancio di vittime prodotto dagli eventi bellici che nei secoli hanno insanguinato il pianeta. Basti pensare al tragico primato della Seconda guerra mondiale, che uccise oltre 60 milioni di militari e civili.
Dopo questo ennesimo massacro l’Onu prese il posto della Società delle Nazioni e ancora oggi cerca di prevenire i conflitti armati, affidando i contenziosi alla diplomazia e incoraggiando il controllo degli arsenali militari. Ma l’organizzazione è quasi paralizzata, esattamente come quella che l’ha preceduta, dal fatto che ripropone al suo interno quelle stesse divergenze che dovrebbe appianare. Per esempio nel Consiglio di sicurezza siedono con diritto di veto alcuni membri permanenti; i loro contrasti impediscono quasi sempre l’unanimità delle decisioni. Eppure un segnale incoraggiante è venuto dalle due superpotenze quando hanno deciso di ridurre gli armamenti nucleari, ma purtroppo quelli che restano bastano per incenerire il mondo. È vero che il deterrente atomico fin qui ha funzionato ma da una guerra all’altra, non soltanto in Afghanistan, si fa largo l’uso di armi convenzionali sempre più micidiali. E così la pace universale rimane un sogno, una chimera, un’utopia.
Quel sogno di pace universale
Dal principio di tolleranza di Maximilien de Béthune alla creazione della Società delle Nazioni. In un mondo perennemente in guerra nascono e muoiono utopie che suggeriscono altre strade possibili
/ 27.09.2021
di Alfredo Venturi
di Alfredo Venturi