L’esperienza dei ticinesi nella città ligure

«Partimmo per Genova, in bus, il 21 luglio 2001», racconta una luganese allora 18.enne. «Era un viaggio promosso da un insieme di organizzazioni politiche e sociali attive in Svizzera. Non dissi nulla ai miei genitori per paura di essere bloccata visto quel che era accaduto il giorno prima: la morte di Carlo Giuliani. Dovevo andare. Bisognava esserci per tentare di cambiare un mondo che non funzionava. Partimmo all’alba ma in dogana ci fermarono. Ci fecero scendere tutti, fummo perquisiti e il nostro passaporto venne registrato». Era quasi divertente, continua la nostra interlocutrice: «Pareva di essere in un film ambientato in America Latina e ci sentivamo un po’ Che Guevara in missione, con le guardie di confine che ci osservavano in cagnesco. Alla fine trattennero in dogana alcuni ragazzi. Noi decidemmo di continuare il viaggio. All’arrivo ci aspettava un sole caldissimo e gente di ogni sorta: giovani, anziani, bambini. Persone di diverse sfumature politiche, rappresentanti di centri sociali ma anche suore, preti coi loro fedeli che pregavano per un mondo più giusto. Una folla immensa in attesa di diventare un solo corpo, un corteo».

Sul bus ticinese c’era anche Paolo, del Sopraceneri. «Il clima era buono, nonostante la tensione palpabile. Striscioni ovunque, bancarelle improvvisate. Si discuteva senza sosta». Mentre la città, ricorda l’uomo, era blindata. Transenne e militari ovunque. C’è chi parlava di 20 mila agenti schierati a difesa degli 8 «grandi» asserragliati nella zona rossa. «Era la meta del nostro corteo. A quel punto la fame si fece sentire. Nessun negozio aperto, figuriamoci i ristoranti. Ma dalle case la gente ci offriva acqua, panini, biscotti… Alcuni li calavano dalle finestre con le corde. Infine trovammo una pizzeria aperta. Il gestore era contento di poter soddisfare la fiumana affamata. Diceva di non avere mai fatto affari d’oro come in quell’occasione».


Poi il corteo partì per conquistare la città accaldata. Sembrava andare tutto bene… Sembrava. «All’improvviso il clima cambiò», ricorda un’altra ticinese, Anna. «Mi voltai di scatto e vidi la folla dividersi nettamente in due. Nel mezzo, isolati, degli individui vestiti di nero, i famigerati black bloc, con spranghe e incappucciati. Che aria minacciosa! Avevano già messo a ferro e fuoco la città…». Dal canto loro – prosegue Anna – i manifestanti pacifici iniziarono a urlare: «Andatevene, la violenza non la vogliamo». E le squadre nere svanirono nelle retrovie. «Ma le forze dell’ordine che, intervenendo, avevano diviso il corteo in due tronconi non parevano curarsene. Non sembravano cercare i black bloc. Attaccavano invece chiunque si trovasse sul loro cammino, anche gente innocua che nel frattempo si era fermata, anzi retrocedeva, con le mani alzate. Manganelli a destra e a manca, insomma, mentre dall’alto cominciarono a piovere lacrimogeni lanciati da un elicottero. Tentavamo di scappare ma eravamo troppi. Non si capiva più niente. Vedevo a pochi metri da me ragazzi a terra, sanguinanti. I miei occhi bruciavano terribilmente. L’ansia saliva. Il cordone di sicurezza impedì che succedesse di peggio, che la gente si schiacciasse». Qualcuno era paralizzato dalla paura, dice la nostra interlocutrice. Altri continuavano a scattare fotografie e girare video come forsennati. «Non siamo mai arrivati dove volevamo, ai limiti della zona rossa, e siamo stati testimoni di un deciso atto di violenza».


Quel sogno che ritorna

A 20 anni dalle contestazioni del G8 di Genova ripercorriamo la storia del movimento no-global. Insieme al medico e attivista Vittorio Agnoletto cerchiamo di capire cos’è rimasto delle istanze che lo animarono
/ 05.07.2021
di Romina Borla

Vent’anni fa Genova diventò per qualche giorno il centro del mondo. Tra il 20 e il 22 luglio 2001 ospitò infatti il G8 – il vertice degli otto «grandi» della Terra – e il variegato popolo dei no-global che lo contestava. «Un altro mondo è possibile», era lo slogan dei manifestanti che sognavano una società diversa basata sulla giustizia sociale, sul rispetto dei diritti fondamentali e sul rifiuto della cruda logica del profitto. Il 19 luglio sfilò il primo corteo dedicato ai migranti: una festa. Però il giorno dopo il clima si incrinò. Iniziarono gli incidenti e le violenze dei black bloc, gruppo eterogeneo di individui che agivano ai margini del movimento pacifista con l’obiettivo di creare disordini. Intanto la polizia caricava la folla e i contenuti del «movimento dei movimenti» passarono in secondo piano. Ma quali erano le istanze che portarono alla formazione della rete di contestazione attiva in quegli anni e cos’è rimasto? Lo abbiamo chiesto a Vittorio Agnoletto – medico, professore universitario e attivista – all’epoca portavoce del Genoa social forum (Gfs).

«Negli anni Novanta, in Italia e non solo, si verificò un gran proliferare di associazioni attive negli ambiti più disparati», spiega il nostro interlocutore. «Realtà che ad un certo punto si accorsero di avere degli avversari in comune e della necessità di unirsi per riuscire a cambiare le logiche inique che governavano il mondo». È così che nacque la rete no-global. Agnoletto entra nel merito della sua esperienza, ritenendola esemplificativa. «Nel 2000 ero presidente della Lega italiana per la lotta contro l’Aids (Lila) e coordinavo la campagna europea di solidarietà al Sudafrica di Nelson Mandela, impegnato in un braccio di ferro con l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e big pharma per l’accesso ai farmaci contro l’Aids. In Sudafrica il 30 per cento delle donne dai 14 ai 40 anni era sieropositiva e i medicamenti antiretrovirali erano costosissimi. Mandela con una legge autorizzò le industrie locali a produrre i preparati scavalcando i brevetti. Allora una quarantina di multinazionali del farmaco fece ricorso all’Omc, bloccando la legge». Nell’aprile 2001, in seguito alla campagna internazionale di solidarietà nei confronti di Mandela, le multinazionali si sedettero al tavolo delle trattative. Alla fine, comunque, i «grandi» della Terra decisero a favore dei brevetti e parallelamente crearono un Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria. Azione che l’intervistato definisce una pillola di carità che non poteva in alcun modo sostituirsi al diritto.

«In quegli anni toccammo con mano il peso degli organismi internazionali che, pur non essendo eletti, incidevano sulla vita di miliardi di persone: oltre all’Omc, la Banca mondiale (Bm) e il Fondo monetario internazionale (Fmi). Ad esempio quest’ultimo spingeva i Paesi poveri a tagliare sulla sanità e sull’istruzione pubbliche in cambio di prestiti. Anche gli interventi economici promossi dalla Bm tendevano a trasformare il sistema sanitario di diverse Nazioni secondo logiche basate sul profitto. Capimmo insomma che la lotta per i farmaci contro l’Aids doveva passare per un cambiamento del ruolo degli organismi internazionali, i quali agivano sotto la regia del G8». Così la Lila – come molte altre realtà – aderì al movimento no-global. Un’espressione fuorviante, secondo Agnoletto: «Siamo stato il movimento più globale che l’umanità avesse incontrato fino a quel momento. Contestavamo la globalizzazione basata sulle iniquità, sui profitti enormi di pochi e la miseria della stragrande maggioranza della popolazione. Ci battevamo per una globalizzazione che mettesse al centro i diritti di tutte e tutti».

La rete di contestazione globale salì agli onori della cronaca nel 1999, in occasione delle decise proteste contro il vertice dell’Omc in corso a Seattle, negli Usa. Poi, nel gennaio del 2001 in Brasile, a Porto Alegre, decine di migliaia di persone da tutto il mondo diedero vita al primo Forum sociale mondiale in contrapposizione al Wef di Davos. Nel luglio dello stesso anno arrivò Genova. Oltre 1200 associazioni costruirono il Gsf, dice il nostro interlocutore. Realtà diversissime s’incontrarono, dai centri sociali ai gruppi di missionari. «L’evento cominciò il 16 luglio con la seduta di apertura durante la quale l’economista filippino Walden Bello parlò di sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta, di cambiamento climatico, di catastrofi imminenti. Ed è proprio dalla deforestazione e dagli allevamenti intensivi che si sono sprigionate le peggiori epidemie degli ultimi 20 anni... Mentre la politologa Susan George avvertiva che se non fossimo riusciti a fermare il dominio della finanza sull’economia saremmo andati incontro a una crisi economica e sociale senza precedenti. E così è stato, dal 2007». A Genova si toccarono tanti altri temi ancora aperti: dal dramma annunciato dei migranti alla tobin tax (l’imposta sulle transazioni finanziarie), dalla cancellazione del debito estero dei Paesi poveri alla battaglia contro le disparità di genere, dalla necessità di difendere la democrazia al disarmo ecc. «Avevamo compreso verso quale disastro stava correndo il pianeta e cercavamo di avanzare delle proposte per cambiare il corso delle cose», osserva l’attivista.

Ma qualcosa non ha funzionato e il movimento si è sfaldato pochi anni dopo. Come mai? Qualcuno mette in evidenza le difficoltà di tenere insieme le differenti anime che lo componevano e di avanzare proposte concrete, coerenti. Per Agnoletto è stata la violenza a bloccare l’entusiasmo. «Parlo della repressione di piazza ma anche della brutalità mediatica che, salvo rare voci, si scatenò contro il movimento con l’obiettivo di spaccarlo. Poi arrivò l’11 settembre che modificò totalmente lo scenario: fino a quel momento la battaglia era tra liberismo e movimento altermondialista, dopo l’attacco alle Torri gemelle la narrazione si trasformò in Occidente contro terrorismo islamico». Così le varie realtà che diedero vita al «movimento dei movimenti» tornarono alle loro attività di sempre, afferma l’intervistato. «Ma le istanze che animarono le proteste degli anni Novanta sopravvissero e riemersero, anche se isolate, in più occasioni. Pensiamo al Comitato referendario per difendere l’acqua come bene comune o alle mobilitazioni contro il nucleare. Senza dimenticare Occupy Wall street, il movimento ambientalista Fridays for future, Black lives matter ecc.».
Per Agnoletto oggi è più che mai necessario «riprendere quei discorsi ancora attualissimi e ritrovare il filo che univa le realtà del Genoa social forum. Adesso un altro mondo è necessario, non solo possibile. Non fosse altro per la piramide sociale che vede il 9% della popolazione mondiale possedere il 84% della ricchezza globale (dati Credit Suisse 2018) e le marginalità diffuse anche all’interno dei Paesi ricchi».

L’emergenza sanitaria ci offre un’ulteriore opportunità di riflessione, conclude Agnoletto che è tra i promotori della campagna Nessun profitto sulla pandemia la quale si propone di raccogliere le firme per chiedere alla Commissione europea di liberare i brevetti sui vaccini anti-Covid. «Quello che accade oggi richiama ciò che avvenne 20 anni fa: miliardi di persone in attesa dei vaccini, un pool di multinazionali che detiene i brevetti e alcuni Governi che si oppongono alla proposta di sospenderli. Le logiche del mondo non sono cambiate, in certi casi sono addirittura peggiorate. Per questo è necessario tornare a Genova, per ripartire da quei contenuti, attualizzarli e guardare al futuro».