«L’India è sulla Luna!», esultava S. Somanath, capo dell’Organizzazione indiana per la ricerca spaziale (Isro), al momento dell’atterraggio della navicella Chandrayaan-3 sul satellite lo scorso 23 agosto. Mentre gli facevano eco tutti, ma proprio tutti i canali di news che avevano trasmesso in diretta le delicatissime fasi dell’allunaggio, con tanto di giornalisti proiettati con effetti speciali sulla superficie lunare come se trasmettessero dalla Luna stessa. Dove il modulo Vikram (battezzato così in onore di Vikram Sarabhai, il padre del programma spaziale indiano) e il rover di nome Pragyan («conoscenza» in sanscrito) sono atterrati nella regione polare meridionale stracciando una serie di primati. Non soltanto difatti l’India è riuscita dove la Russia aveva fallito soltanto pochi giorni prima, ma è il quarto Paese a realizzare un atterraggio controllato sulla superficie lunare dopo gli Stati Uniti, la Cina e l’ex Unione Sovietica (la Russia di Putin non ha mai compiuto una missione, quella fallita di recente era il primo tentativo dopo 47 anni). E il fatto che la destinazione fosse uno dei poli lunari rende il successo ancora più clamoroso, visto che nessuno era mai riuscito ad arrivare fino a lì.
Appena Vikram ha toccato la superficie, in tutta l’India, che era rimasta incollata davanti ai televisori, esplodevano petardi e fuochi d’artificio mentre la gente si riversava per strada ballando, distribuendo dolci e sventolando la bandiera nazionale. «È un momento indimenticabile, fenomenale! È il grido di vittoria della nuova India!», dichiarava il premier Narendra Modi, che aveva seguito l’allunaggio dal vertice dei Brics in Sudafrica, ringraziando gli scienziati che avevano reso possibile il viaggio di Chandrayaan-3. Un viaggio cominciato nel 1962 in un piccolo villaggio di pescatori del Kerala, Thumba. Dove l’allora vescovo del luogo Peter Bernard Pereira aveva ceduto la canonica e la chiesa per le attività di due giovani scienziati: Vikram Sarabhai, appunto, e A. P. J. Abdul Kalam che diventerà poi presidente dell’India. I primi studi e i primi razzi lanciati in orbita nel 1963 sono nati là, assemblati nell’ex Saint Louis High School che ospita adesso un museo spaziale. Trasportati spesso da carri trainati da buoi, o dagli stessi scienziati che, in bicicletta, si spostavano da un laboratorio all’altro con sofisticatissime componenti tecnologiche nel cestello.
Da allora il programma spaziale indiano ha fatto passi da gigante: lanciando nel 2008 Chandrayaan-1 e nel 2019 Chandrayaan-2, che però non è riuscita ad allunare. E, nel 2018, mandando a orbitare attorno a Marte la navicella Mangalyaan. Facendo ammettere l’India nel club elitario delle Nazioni che hanno lanciato una sonda su Marte e dando per giunta uno schiaffo morale alla Cina, la cui missione sul Pianeta rosso tentata due anni prima con la sonda Yinghuo-1 era miseramente fallita. Mangalyaan, come Chandrayaan, era stata interamente progettata da scienziati e ingegneri indiani, costruita in India da manodopera indiana con materiali di fabbricazione locale e aveva a bordo strumenti di rilevamento rigorosamente made in India. Con un indice costi-benefici da fare invidia: il budget previsto per Chandrayaan-3, probabilmente poi sforato di poco, è di circa 76 milioni di dollari, meno del costo di produzione di un film con effetti speciali. In cifre, mentre il budget complessivo dell’Isro nell’ultimo anno fiscale è stato inferiore a 1,5 miliardi di dollari, la dimensione dell’economia spaziale privata indiana è già di almeno 6 miliardi di dollari e si prevede che triplicherà entro il 2025 (un dollaro equivale a 0,88 franchi circa). Grazie agli investimenti stranieri, l’India intende quintuplicare la propria quota del mercato globale dei lanci nel prossimo decennio. E sta già lavorando alla missione Gaganyaan: una navicella che porterà sulla Luna tre astronauti indiani.
E se è vero che gli astronauti selezionati per Gaganyaan sono tutti uomini, è vero anche che a Chandrayaan come a Mangalyaan hanno lavorato un centinaio di scienziate e ingegnere. A cominciare da Kalpana Kalahasti, che era direttrice associata del progetto Chandrayaan-3, passando per Ritu Karidhal Srivastava che era stata direttrice sia di Mangalyaan che di Chandrayaan-2. Un trionfo, appena sciupato dalle polemiche di quanti, a occidente, hanno pontificato sull’opportunità, per un Paese come l’India, di sviluppare un programma spaziale invece di costruire infrastrutture e «servizi igienici decenti», per dirla con la «Bbc». Che non si è accorta, come molti da questa parte del mondo, che servizi igienici, elettricità e acqua potabile sono già oggetto da anni di una capillare campagna governativa e che allo sviluppo di infrastrutture sono dedicate nel bilancio dello Stato cifre molto più consistenti di quelle devolute al programma spaziale. Bisognerebbe essere bambino, o bambina, in un villaggio del subcontinente, per capire. Per capire che Chandrayaan ha regalato a tutti un sogno, una speranza e una possibilità. Come ha detto Faran Jeffery, un analista pakistano: «Il successo di Chandrayaan 3 sarà d’ispirazione nei decenni a venire non soltanto per i bambini indiani ma anche per i bambini di tutti i Paesi in via di sviluppo, a cominciare dal Pakistan». Sarà d’ispirazione a tutti quei bambini che sognano di fare l’astronauta, di andare sulla Luna, di costruire razzi. E che da oggi in poi sanno di non dovere emigrare per realizzare il loro sogno.
Quel sogno che diventa realtà
L’India è il quarto Paese al mondo a compiere un atterraggio controllato sulla Luna; il significato del notevole traguardo
/ 04.09.2023
di Francesca Marino
di Francesca Marino