«I cinesi sono i benvenuti. Se hanno fatto degli investimenti nel paese assicureremo certamente la loro sicurezza. È molto importante per noi che stiano al sicuro... Siamo stati in Cina molte volte, e abbiamo un’ottima relazione con il governo cinese». Così parlò Suhail Shaheen, portavoce dei Talebani, rilasciando un’intervista al «South China Morning Post». Aggiungendo che i Talebani «non hanno intenzione di permettere ad alcun gruppo, incluso l’East Turkistan Islamic Movement di operare in Afghanistan». Da anni ormai difatti il Partito comunista cinese adotta una pragmatica strategia nei confronti dei gruppi estremisti islamici, inclusi i Talebani. Da una parte non capisce e non approva l’Islam così come non capisce e non approva alcun credo religioso che possa intralciare la lealtà nei confronti dello Stato. Dall’altra, è acutamente consapevole di come le politiche draconiane adottate nello Xinjiang nei confronti degli Uiguri di religione islamica possano spingere i gruppi terroristici che operano ai confini cinesi a fornire assistenza al Movimento Islamico dell’est Turkestan che combatte per liberare gli Uiguri di cui sopra. E siccome, come da copione recitato anche dall’inviato usa per le trattative con i Talebani Khalilzad, per accordarsi con i terroristi bisogna parlare con chi i terroristi li gestisce, le agenzie di intelligence cinesi, sotto l’egida del ministero per la Sicurezza nazionale, si sono rivolte ai servizi segreti pakistani. Chiedendo all’Isi (Inter-Service Intelligence), che ha creato e ancora gestisce non soltanto i Talebani ma anche le varie organizzazioni terroristiche che operano nell’area geopolitica, di adoperare la loro influenza su gruppi come la Lashkar-i-Toiba. Organizzazione terroristica di primo piano che, al contrario dei Talebani, ha un’agenda di jihad internazionale che spazia dallo Xinjiang alla Spagna passando per la Sicilia.
L’accordo è in realtà molto semplice: il Pakistan non permette ai gruppi terroristici che sponsorizza nemmeno di pronunciare la parola «Uiguri», figuriamoci fornire supporto logistico e militare ai combattenti dello Xinjiang. In cambio, la Cina si è impegnata in sede internazionale a sostenere in vari modi l’uso che il Pakistan fa dei gruppi terroristici come strumenti di politica estera. Per anni la Cina si è opposta all’inclusione del capo della Jaish-e-Mohammed, Masood Azhar, nella lista dei terroristi internazionali, e si oppone tuttora, ad esempio, all’inclusione del Pakistan nella lista nera della Fatf per il finanziamento e il sostegno dato a gruppi terroristici vari.
La relazione con i Talebani è di vecchissima data. La Cina aveva ai tempi ufficialmente condannato l’invasione russa dell’Afghanistan adottando tuttavia, sempre ufficialmente, una politica di non intervento. Mantenendo però, attraverso il Pakistan, sempre un canale aperto, più o meno segreto, con i Talebani e con altri gruppi della zona. L’ex inviato speciale della Cina per l’Afghanistan, l’ambasciatore Sun Yuxi, ha iniziato a occuparsi della questione afghana nel 1981, quando ha contribuito a fornire armi cinesi ai mujaheddin. Quando i Talebani hanno preso il potere nel 1996, la Cina, sempre con l’aiuto del Pakistan, è stata ben felice di trattare il gruppo terroristico come un normale governo. Infatti, nel novembre 2000, l’allora ambasciatore cinese in Pakistan, Lu Shulin, è stato il primo alto rappresentante di un paese non musulmano a incontrare il mullah Omar. Secondo Abdul Salam Zaeef, ex inviato talebano in Pakistan, l’ambasciatore cinese era in quel momento l’unico diplomatico straniero a mantenere buoni rapporti con la loro ambasciata a Islamabad. Lu Shulin, ai tempi dell’incontro con il mullah Omar, sperava di ottenere dai Talebani garanzie riguardo ai combattenti Uiguri che si nascondevano nel paese. Il mullah Omar sperava dal canto suo che la Cina riconoscesse il suo governo, e soprattutto che impedisse all’Onu di emanare ulteriori sanzioni nei confronti di Kabul. Nessuna delle parti ha mantenuto completamente gli accordi: la Cina si è difatti soltanto astenuta dal votare ulteriori sanzioni, mentre i Talebani non hanno espulso i combattenti uiguri come chiedeva Pechino ma gli hanno soltanto impedito di compiere attentati contro la Cina.
Sia la Cina che il Pakistan hanno in ogni caso continuato a mantenere rapporti con i Talebani ben dopo l’11 settembre. Fino a che nel 2011, quando Barack Obama annunciò l’intenzione degli Stati Uniti di ritirarsi dall’Afghanistan e quando, successivamente, Xijinping lanciò la Belt and Road Initiative, i vecchi contatti sono tornati utilissimi. Perché la stabilità dell’Afghanistan diventava cruciale non soltanto per la sicurezza dei confini con lo Xijiang ma anche per il progetto di connettività globale (leggi: imperialistico) di Pechino. Alla fine del 2014, una delegazione di Talebani che, non dimentichiamolo, erano in quel momento terroristi che compivano stragi contro il governo legittimo dell’Afghanistan, si è recata in segreto in Cina per incontrare una serie di alti funzionari del governo. Non solo: nel 2015, Pechino ha organizzato, sempre in segreto, un incontro tra Talebani e rappresentanti del governo afghano. A Urumqui, capitale dello Xinjiang.
Simili incontri venivano organizzati, sempre con la imprescindibile presenza dei cinesi, anche in Pakistan. Il cui ruolo come «mediatore» tra il governo legittimo in Afghanistan e i terroristi Talebani creati e sposorizzati dall’Isi, veniva fortemente e ufficialmente sostenuto dalla Cina. E non senza ragione. Negli anni, con la scusa del progetto di connettività economica lanciato alla fine con grande fanfara da Xi Jinping, la Cina ha praticamente colonizzato il Pakistan. I cui interessi convergono, per motivi diversi, con quelli di Islamabad in Afghanistan: i generali sognano da sempre la profondità strategica, Pechino ha in mente la Belt and Road Initiative. E per entrambi l’Afghanistan è di vitale importanza. In questa chiave, sia Islamabad che Pechino hanno continuato a parlare con i Talebani sia durante gli anni della «war on terror» che durante la fragile tregua dei governi democratici succedutisi a Kabul. Pechino è uno dei maggiori investitori stranieri in Afghanistan. Il Logar Aynak, il progetto di estrazione del rame, ad esempio, è finora il più grande investimento straniero nel paese.
Pechino investe in Afghanistan, e cerca di controllare il governo, qualunque governo, per due ragioni principali: perché il paese è geopoliticamente e strategicamente significativo sia come rotta di trasporto che per le potenziali fonti di energia, e perché teme che l’instabilità politica dell’Afghanistan possa rafforzare le attività separatiste nello Xinjiang. E siccome la Cina non possiede remore etiche o morali, ha prontamente ricevuto a Pechino una delegazione del neonato governo talebano che ha preso il potere in Afghanistan. L’ambasciata cinese, assieme a quella pakistana, è una delle poche a non aver mai chiuso i battenti a Kabul. La difesa degli interessi economici di Pechino in Afghanistan, in Pakistan ma anche nel Tajikistan, nel Turkmenistan e in genere nell’Asia Centrale, è la scusa preferita della Cina per adottare quella che, alla fine, è sempre stata la politica estera pakistana: ci sono terroristi buoni e terroristi cattivi, e quelli buoni, che servono a proteggere i propri interessi, sono i benvenuti. Con buona pace del diritto internazionale, dei diritti umani e dei diritti civili.