L’Africa post-coloniale è stata segnata da centinaia di colpi di Stato, falliti o riusciti. Il golpe è un metodo di passaggio del potere fra le élite locali che segnala il ruolo preponderante che le Forze armate e le milizie hanno nelle società africane. Tanto vero che in passato i colpi di Stato trovavano raramente interesse nell’opinione pubblica e nei media occidentali, compresi gli europei che pure dovrebbero esservi più sensibili. Il golpe del 26 luglio in Niger ha invece avuto un’eco straordinaria, non solo in Africa e in Europa ma in tutto il mondo. Perché?
La ragione principale è che, per riprendere la sentenza di papa Francesco, stiamo vivendo una «guerra mondiale a pezzi». Molti di questi pezzi sono in Africa, dove si concentra la maggioranza dei conflitti in corso. Letto nel contesto strategico globale, il golpe nigerino tocca non solo gli squilibri saheliani ma investe le maggiori potenze. La Francia, anzitutto, che quale ex (?) padrone coloniale vi ha concentrato il grosso delle sue Forze armate stanziate nel Continente Nero, a protezione dei propri interessi non solo minerari ed energetici (uranio). Le piazze di Niamey si sono riempite nei giorni successivi alla presa del potere della giunta di folle eccitate dal sentimento anti-francese, giacché Parigi è considerata ancora una potenza coloniale di fatto che estrae le risorse locali senza produrre nulla sul fronte della sicurezza interna (cosiddetta «guerra al terrorismo»).
La Francia sta qui per «Occidente imperialista», almeno nella retorica dei militari al potere a Niamey e dei loro sostenitori regionali, a cominciare dalle giunte del Burkina Faso e del Mali, altri frammenti dell’ex Africa Occidentale Francese. Il suo opposto è la Russia, che sta ritessendo i fili della sua influenza d’età sovietica con contorno di retorica anti-imperialista e anti-occidentale. Insieme alla Cina, sempre più radicata in Africa, è lo spauracchio delle potenze europee ma soprattutto degli Stati Uniti – che in Niger hanno un paio di basi militari con oltre mille uomini. Il capo della giunta di Niamey, generale Abdourahmane Tchiani, è quindi percepito a Washington come a Parigi quale agente del nemico. Il gruppo Wagner starebbe silenziosamente preparandosi a servire il nuovo regime, così espandendo la già vasta sfera di influenza africana di Mosca. Insomma, il Niger è percepito dagli strateghi occidentali come un altro fronte dello scontro con Russia e Cina, dopo quella caldo in Ucraina e quello freddo ma non troppo nell’Indo-Pacifico.
Il caso Niger rimette in questione il senso della presenza militare occidentale, in particolare francese, nel Continente africano. La ragione pubblicamente addotta per spiegare lo schieramento di migliaia di soldati francesi nell’ex impero costruito con particolare acribia dalla Terza Repubblica e smantellato formalmente sotto de Gaulle è la lotta al terrorismo jihadista. Argomento piuttosto pretestuoso, se non altro a giudicare dai risultati. Si tratta semmai di perpetuare l’influenza francese in territori che l’Esagono continua a percepire propri e che hanno un rilievo economico e strategico, oltre che sentimentale, tuttora notevole nell’opinione pubblica e nelle élite. Il golpe di Niamey, dopo gli smacchi subiti in Mali, in Centrafrica e in Burkina Faso, segnala che il terreno su cui poggiano i francesi è sempre più fragile. E le popolazioni locali sempre più ostili.
Il contesto regionale è assai poco incoraggiante. L’unica potenza rilevante nell’area è la Nigeria, peraltro anglofona, che da sola non può certo riprendere il controllo del vicino Niger. Né l’Ecowas, la Comunità Economica dell’Africa Occidentale, ha la coesione e la forza sufficiente per riportare al potere il deposto presidente Bazoum. Per questo esita a rendere concreta la minaccia di un intervento militare in Niger e si orienta, apparentemente, verso una pista diplomatico-sanzionatoria per ora priva di sbocchi. Il rischio di una guerra resta quindi effettivo. Con l’eventuale coinvolgimento di altri Paesi della zona.
La Francia non ha alcuna intenzione di ritirarsi dal Niger. Per Macron sarebbe il suggello di un fallimento totale. Il presidente francese è lo zimbello dei media e dei leader africani. Come a molti suoi predecessori gli viene rimproverato il tono arrogante, l’incapacità di garantire la sicurezza, la rapacità nello sfruttamento delle risorse africane. Se consideriamo anche la guerra in Sudan, l’instabilità permanente in Nordafrica e soprattutto nel Corno d’Africa, possiamo derivarne la certezza che la crisi nigerina contribuirà ad alimentare i flussi migratori verso l’Europa via Mediterraneo. Nella città nigerina di Agadez si concentrano infatti le principali rotte migratorie. I tentativi di varie potenze europee, Francia e Italia in testa, di utilizzare un regime amico come quello appena deposto quale tampone per limitare quei tragici viaggi sono falliti. L’onda d’urto del golpe di Niamey arriverà presto, in varie forme, anche sulle nostre sponde.