Il 4 aprile del 2019 il generale Khalifa Haftar ha lanciato un’offensiva per conquistare la capitale libica, Tripoli, sotto il controllo del GNA, Governo di Accordo Nazionale, sostenuto dalle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al Sarraj. Da allora sono passati quasi dieci mesi e si continua a fare la conta dei morti: 150 mila persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni, distrutte sul fronte meridionale della città, nei quartieri di Qasr bin Gashir e nella zona di Ain Zara, che – soprattutto – sono stati teatro di scontri particolarmente brutali. I morti più di mille, i feriti più di diecimila. I due attacchi più sanguinosi del conflitto hanno colpito un centro di detenzione per migranti, lo scorso luglio, quando due bombe lanciate dalle truppe di Haftar, hanno centrato una prigione a Tajoura, in cui erano detenuti circa 400 migranti. Qui cinquanta morti, e centotrenta feriti. Il mese scorso, a Tripoli, un missile ha preso l’accademia militare: trentatré morti, per lo più cadetti, giovani studenti, e decine di feriti.
Oggi il conflitto sta vivendo uno stallo diplomatico, le due parti – da un lato il generale Haftar e dall’altro Sarraj – non si incontrano personalmente ma i loro alleati cercano una mediazione, il ripristino della negoziazione politica e di un percorso che porti a elezioni. Ma le soluzioni diplomatiche continuano a fallire, così come è fallita la Conferenza di Palermo nel dicembre 2018, organizzata dall’allora governo italiano a guida Lega-5 Stelle e come sono falliti i successivi incontri di Abu Dhabi, in vista di una conferenza programmatica a Ghadames, che avrebbe dovuto tenersi il 14 aprile scorso. Dieci giorni prima il generale Haftar aveva lanciato la sua campagna militare al grido di «Libererò in tre giorni la capitale dai terroristi».
Dieci mesi dopo Tripoli non è ancora caduta, ma la guerra non è più ormai una guerra civile, è diventata una pericolosa guerra per procura – così come lo è stata e lo è tuttora in Siria – in cui attori regionali e non, si contendono zone di influenza e asset energetici, di cui il Paese è ricchissimo essendo la nona riserva petrolifera al mondo.
La guerra di Libia è una guerra multipolare, una guerra in cui gli assi delle alleanze internazionali sono molteplici e vanno a definire strategie di influenza certamente economiche e politiche ma anche religiose.
Nella complessità di questo scenario, i governi europei, con particolare riferimento a quello italiano e francese che per ragioni storiche hanno interessi in Libia, hanno dimostrato tutta la loro debolezza. L’Europa ha risposto all’ultimo conflitto libico (vale la pena ricordare che è il quarto conflitto in nove anni, dal 2011, anno della primavera araba, della rivoluzione che ha deposto il regime quarantennale dell’ex rais Muammar Gheddafi) con posizioni diverse, contrastanti, senza una visione condivisa della soluzione del conflitto.
Il governo francese di Emmanuel Macron ha sostenuto negli ultimi anni il generale Haftar, i governi italiani (tre in meno di 24 mesi) hanno sostenuto il governo delle Nazioni Unite, il governo Sarraj, per ragioni economiche (è in Tripolitania infatti che l’Italia ha un asset energetico strategico, il compound Eni di Mellitah) e per ragioni che fanno capo al fenomeno migratorio, che ha i suoi nodi nevralgici di partenza proprio nella parte occidentale del Paese, quella controllata dal GNA, Governo di Accordo Nazionale.
L’Europa sconta oggi l’aver considerato la Libia in questi anni solo nell’ottica di brevissimo periodo, ottica legata a temi di impatto elettorale come il fenomeno migratorio, così, mentre l’unico dibattito nel Vecchio Continente era su chi volesse accogliere o respingere i migranti in arrivo dal paese nordafricano e sui finanziamenti alla Guardia Costiera Libica; dall’altra parte del Mediterraneo si sono mosse e consolidate alleanze ben più solide e i vecchi attori protagonisti, l’Italia e la Francia, sono stati lentamente sostituiti da Turchia e Russia, e dai ricchi e potenti paesi del Golfo.
Sarraj per mesi ha chiesto agli antichi alleati europei una presa di posizione netta sul conflitto, sostenendo che in questa guerra ci fosse un aggressore (Haftar) e un aggredito (la città di Tripoli) e che dunque non si potesse accettare una negoziazione che non prevedesse il ritiro delle truppe dell’LNA (esercito nazionale libico di Haftar). L’Europa però taceva, mentre le truppe di Haftar sono a dodici chilometri da Tripoli. Non indietreggiano neppure oggi, a seguito di un fragile cessate il fuoco, maturato in un incontro a Mosca la settimana scorsa.
Come detto, la guerra di Libia è nei fatti una guerra multipolare. Il governo di Tripoli è sostenuto da Turchia e Qatar, mentre l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha il supporto della Russia, dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto. Il supporto che fino a un anno fa era di natura politica, oggi, complice la guerra, ha assunto natura economica e militare. La Russia ha contribuito con centinaia di mercenari del Gruppo Wagner, esercito privato legato al Cremlino e al presidente Putin, in soccorso di Haftar, combattenti che hanno radicalmente cambiato le sorti del combattimento.
Sul fronte opposto, Sarraj ha stretto recentemente due accordi – uno sui confini marittimi e uno per la cooperazione militare – con il governo di Erdogan, che hanno incrinato gli equilibri nel Mediterraneo centrale e orientale, perché coinvolgono operazioni di trivellazione e la competizione sull’energia di Cipro, Grecia e Egitto. In tutti questi mesi Erdogan ha avuto la cinica scaltrezza di capitalizzare la debolezza europea a proprio vantaggio. Ha stretto un trattato sui diritti di perforazione del gas, attraverso cui la Turchia assorbirebbe una parte di acque territoriali greche, perché Ankara non ha mai riconosciuto la convenzione Onu del 1982 sui confini marittimi, non riconosce dunque la Repubblica di Cipro Sud e i suoi accordi economici con Egitto, Libano e Israle. In cambio dei diritti di perforazione Erdogan ha messo da un lato a disposizione di Sarraj le proprie truppe e i propri soldati, dall’altro la sua capacità negoziale con Putin.
Perché se certamente i due non sono amici, è anche vero che non sono completamente nemici. Esattamente come nell’altra cronica guerra per procura, quella siriana, Erdogan e Putin hanno dimostrato che sia assai più produttivo spartire i paesi in zone di influenza che finire allo scontro totale. Non è dunque un caso che i due incontri cruciali delle ultime settimane si siano svolti a Istanbul e Mosca. Il primo per inaugurare il Turk Stream, la pipeline russo-turca che incanalerà il gas naturale russo attraverso la Turchia verso l’Europa, un oleodotto di 930 km. Il secondo, a Mosca, per facilitare il tentativo di un cessate il fuoco libico, a dimostrazione che i due tavoli – affari e sfere di influenza agite per procura – si muovono in parallelo.
A complicare ulteriormente lo scenario, c’è l’elemento religioso. Da un lato, i due sostenitori di Sarraj, Qatar e Turchia, sono espressione della Fratellanza Musulmana, l’islam politico; dall’altra Emirati e Sauditi che sostengono Haftar sono espressione di gruppi salafiti madkhalisti, anche noti come «salafiti quietisti», che supportano il Generale della Cirenaica dal 2014, e sono stati un elemento fondamentale della sua campagna militare. Sebbene Haftar si sia sempre presentato e accreditato con il mondo come un militare difensore del secolarismo, sul campo le zone grigie delle sue truppe hanno anche la forma di gruppi estremisti.
I salafiti madkhalisti seguono i precetti del novantenne Rabi al Madkhali, uno sceicco saudita, la cui dottrina prevede l’obbedienza al wali al-amr (cioè colui che detiene l’autorità) e il mantenimento dello status quo. Seguono un’interpretazione letterale del Corano, credono di essere l’unica vera espressione del salafismo, rifiutano le elezioni e la democrazia e queste caratteristiche li hanno resi, negli anni, molto popolari con i dittatori. Come lo erano con Gheddafi, che li invitò negli anni Novanta, in Libia, proprio per ostacolare l’attività dei Fratelli Musulmani.
Ecco dunque che la Libia, trascurata dall’Europa, è diventata negli ultimi anni terreno di scontri regionali molto complessi, che non potranno essere risolti se non con una visione di lungo termine, perché è anche dalla stabilità della Libia che dipendono la sicurezza e l’approvvigionamento energetico europeo.