Ci sono tanti imbuti fatti di persone sotto la frontiera meridionale degli Stati uniti. Lì si ammassano, uno sull’altro, gli aspiranti migranti in attesa di capire come riuscire ad entrare negli Stati uniti. Uno di questi imbuti è Tapachula, in Chiapas, Messico meridionale. Tapachula è una città di circa 300 mila abitanti lontana dal confine statunitense e vicina al confine con il Guatemala. È diventata uno dei più grandi ricettacoli di persone stipate in poco spazio, senza soldi e senza altro da fare che attendere di ripartire verso nord.
A Tapachula solitamente si vedono file di gente stanca davanti agli sportelli dei negozietti con servizio di terminale per l’invio di denaro. Chi ha una famiglia in grado di sostenere un minimo i costi del viaggio, lo trovi in coda lì. Gli altri girano tutto il giorno per la città nell’attesa di tornare a dormire accatastati dove possono. Erano almeno quarantamila a inizio settembre. Ora sono molti di più perché la città si è riempita di haitiani, dopo la chiusura della frontiera sud del Texas.
Ventimila persone, secondo stime del Dipartimento di Stato statunitense, quasi tutte haitiane, sono riuscite a metà settembre ad arrivare in Texas attraversando il Rio grande nei punti in cui il fondale è meno profondo. Dopo le espulsioni di massa, feroci, con la polizia a cavallo, botte da orbi e, poi, dopo le caute parole di presa di distanza dell’Amministrazione Biden, sono cominciati i voli di rimpatrio ad Haiti. Si tratta con tutta evidenza del rimpatrio immediato di profughi, molte donne e bambini, perché è impossibile negare lo status di profugo a chi sta scappando in questo momento da Haiti devastata da vari cataclismi naturali e politici.
È possibile cacciare dagli Usa delle persone non considerabili «migranti economici» ma chiaramente profughi in fuga dalla carestia che segue delle catastrofi? Possibile, basta non dare loro il tempo di dichiararsi tali. Negli Stati uniti lo stanno facendo utilizzando il «Titolo 42», una norma creata durante l’Amministrazione Trump con la scusa della pandemia di Covid. Il «Titolo 42» permette per ragioni di salute pubblica l’espulsione immediata, «a caldo», quindi senza garantire agli espulsi il tempo necessario a vagliare il loro diritto eventuale ad essere considerati profughi. Donald Trump l’ha applicato per la prima volta nel marzo 2020, l’Amministrazione Biden l’ha confermato l’agosto scorso. Secondo l’Ufficio della dogana statunitense, nel solo mese di agosto sono state arrestate negli Stati uniti con l’accusa di essere migranti illegali 209 mila persone, il 2 per cento in meno rispetto al mese precedente.
Le espulsioni degli haitiani arrivano un mese dopo che il Dipartimento di Stato americano ha emanato un avviso di non viaggiare ad Haiti «a causa di rapimenti, criminalità, disordini civili e Covid 19». L’inviato speciale degli Stati uniti per Haiti, l’ambasciatore Daniel Foote, ha lasciato l’incarico. Nella sua lettera di dimissioni l’ambasciatore spiega di non voler essere associato «con le decisioni disumane e controproducenti» dei rimpatri ad Haiti, «Paese dove i funzionari americani sono confinati in compound a causa del pericolo creato dalle gang armate».
Sotto il ponte che collega il Messico agli Usa gli haitiani rimasti sono poche migliaia, insieme a nicaraguensi, venezuelani e qualche cubano. Molti sono stati portati a Laredo (Texas), dove s’è creato l’ennesimo campo. Altri sono andati a Ciudad Acuña, nello Stato messicano di Coahuila de Zaragoza, e sono ora fermi in un dormitorio senza acqua e senza letti. In questo momento tra gli haitiani arrivati a un passo dalla meta, chi può, chi ce la fa, invece di lasciarsi deportare, scappa. Fugge in Messico, verso sud, cercando un posto in cui fermarsi per poi tentare di nuovo il viaggio verso nord. Quest’ultimo episodio della tragedia migratoria verso gli Stati uniti, episodio diventato notizia per una serie di contingenze mediatiche ma identico come violenza del sopruso a migliaia di altri che avvengono tutti i giorni, ha reso visibile il braccio di ferro che, da tempo, il presidente messicano Lopez Obrador mette in scena per far la parte di quello che esige rispetto dagli Usa, mentre in realtà quello che chiede sono soldi. Anche stavolta Obrador ha detto che Joe Biden «deve trovare soluzioni che vadano oltre le maniere coercitive». Che «bisogna creare programmi sociali nei luoghi di origine e offrire visti di lavoro negli Stati uniti».
Obrador ha iniziato con Trump e sta continuando tale e quale con Biden, a far fare al Messico la parte del «ripostiglio» dei migranti, detenuti a cielo aperto fuori dai confini statunitensi. S’è offerto per una politica di contenimento e, soprattutto, di esternalizzazione del problema complesso della gestione dell’emergenza migratoria. La soluzione per gli Usa è brillante. In cambio di fiumi di dollari riescono ad affrontare la pressione migratoria senza dover rispettare le leggi statunitensi in materia di diritto d’asilo e senza doversi preoccupare della repressione perché tutte le violazioni dei diritti umani avvengono fuori dal loro territorio. Finché una carovana non buca il confine e s’accampa al di là del fiume. E allora arriva prima la polizia a cavallo e poi, con calma, giungono anche le scuse della Casa bianca.
Quei disperati in attesa al confine con gli States
Il Messico è divenuto il ricettacolo di chi fugge da cataclismi e carestia, sognando un futuro migliore. Mentre una norma creata durante l’Amministrazione Trump permette l’espulsione immediata dei migranti sgraditi
/ 04.10.2021
di Angela Nocioni
di Angela Nocioni