Quando manca il medico di famiglia

Gli addetti ai lavori lanciano l’allarme: a breve la Svizzera rischia di non più poter disporre di un numero sufficiente di professionisti, con ripercussioni dirette sulla qualità delle cure. Le cause del problema e come sta reagendo il Consiglio federale
/ 14.08.2023
di Roberto Porta

Tra le maggiori preoccupazioni degli svizzeri c’è senza ombra di dubbio la fattura delle casse malati, che anno dopo anno non accenna a diminuire. Fra poche settimane, verso la fine di settembre, toccherà di nuovo al dimissionario Alain Berset comunicare al Paese una nuova impennata di questa parcella. Ci sono già state delle anticipazioni, per la direttrice di Santésuisse Verena Nold, per esempio, i premi delle casse malati subiranno nel 2024 un ulteriore aumento del 7,5%. Dall’anno prossimo al posto di Berset ci sarà un nuovo ministro della sanità ma tutto lascia intendere che la tendenza al rialzo sarà inevitabile anche in futuro. In ambito sanitario però non è detto che la questione dei costi economici sia il principale rompicapo da risolvere.

Secondo Philippe Luchsinger, presidente dell’Associazione svizzera dei medici di famiglia e dell’infanzia, c’è un problema ancora più preoccupante da affrontare, ed è quello della carenza sempre più diffusa di medici. Mancano in particolare quelli che si occupano delle cure di base: i medici di famiglia e i pediatri. L’allarme non è nuovo visto che queste difficoltà sono conosciute da tempo. Già nel 2005 uno studio commissionato dagli stessi medici di famiglia metteva in guardia sulla criticità della situazione, anche a causa del fatto che la professione del dottore generalista risulta essere meno attrattiva rispetto ad altre carriere mediche più specialistiche. Nuovi ora sono però i toni utilizzati da Luchsinger che parla, sul sito di informazione sanitaria Medinside, di un sistema ormai al collasso, con all’orizzonte quelli che lui chiama, in tedesco, «massive Probleme». A suo dire, nel giro di due o tre anni la Svizzera rischia di non più poter disporre di un numero sufficiente di medici, con ripercussioni dirette sulla qualità delle cure, negli ospedali e negli ambulatori privati. E così, come già succede in diversi altri Paesi, anche da noi si dovrà aspettare parecchio tempo prima di poter incontrare il proprio medico di famiglia. Con ritardi a cascata nel definire una terapia e nel dare inizio alle cure. E persino con l’introduzione di un sistema di selezione, con il quale, sempre secondo Luchsinger, si darà la priorità a chi soffre di gravi problemi di salute mentre chi è confrontato con patologie più leggere dovrà mettersi in coda. Con il rischio però di non riuscire a diagnosticare una malattia nel suo stadio iniziale. Una situazione non certo ideale, né per il paziente interessato e nemmeno per la fattura sanitaria, visto che intervenire in ritardo significa anche dover metter a bilancio costi più elevati.

Al centro di questa spirale negativa c’è proprio la questione della mancanza di medici, che colpisce non solo la medicina di base ma anche alcune specializzazioni come la radiologia o la chirurgia generale. La causa principale di tutto ciò è da ricondurre a una lacuna nel sistema formativo, o meglio a una strozzatura. Nel nostro Paese i posti a disposizione per chi vuole studiare medicina sono limitati, visto che nelle università è stata introdotta ormai da tempo la barriera del «numerus clausus», con tanto di esame di ingresso. In altri termini si forma meno rispetto alle necessità del sistema sanitario, questo perché così ha voluto la politica, su forte sollecitazione delle casse malati. A loro dire occorreva frenare l’aumento del numero di studi medici, visto che l’apertura di ogni singolo nuovo ambulatorio costa qualcosa come mezzo milione di franchi.

Vi è poi una seconda ragione all’origine di questa strozzatura: i posti di formazione nei nostri ospedali sono limitati per semplici ragioni di spazio; aumentare il numero di studenti in medicina significa anche correre il rischio di intasare le corsie degli ospedali, dato che durante i loro sei anni di studi i candidati medici svolgono anche dei lunghi periodi di formazione a diretto contatto con i pazienti. Finora il sistema ha retto soprattutto grazie ai camici bianchi in arrivo dall’estero, e in particolare dai Paesi dell’Unione europea. Basti dire che tra il 2012 e il 2021 solo il 26% dei nuovi medici attivi in Svizzera aveva studiato in un’università elvetica, mentre il 74% si era formato altrove. Giovani medici che sono andati ad affiancarsi ai loro colleghi più anziani, e così oggi complessivamente nel nostro Paese più di un medico su tre è di origine straniera. Un dato che porta anche ad aprire scomode riflessioni di carattere etico, visto che grazie a questa forte immigrazione medica la Svizzera raccoglie i frutti di quanto seminato da altri Paesi, che hanno investito nella formazione di questi medici e che a loro volta devono andare a cercare altrove il personale sanitario di cui hanno bisogno. Di fatto però il nostro Paese si trova in una situazione di dipendenza dall’estero. E anche di fragilità, basti dire che negli ultimi anni i medici di origine tedesca e austriaca tendono sempre di più a ritornare nei loro Paesi.

Davanti a tutti questi grattacapi, va detto che in questi ultimi anni qualcosa si è mosso. Nel 2011 il Consiglio federale, su sollecitazione del Parlamento, ha elaborato una strategia per combattere la carenza di camici bianchi. Un piano d’azione che annualmente prevedeva di aumentare fino a 400 unità il numero di medici diplomati. Nel 2017 c’è stato un ulteriore cambio di marcia, che ha visto la Confederazione sostenere i Cantoni con 100 milioni supplementari allo scopo di accrescere i posti di studio a disposizione nelle nostre facoltà di medicina, compreso il nuovo master inaugurato nel 2020 all’USI di Lugano. L’obiettivo è quello di passare dai 900 diplomi del 2016 ai 1350 previsti nel 2025. Cifre che però non basteranno a far fronte alle necessità del sistema sanitario svizzero, in particolare per quanto riguarda i medici di famiglia e i pediatri. Da qui il grido di allarme lanciato dal loro presidente, il dottor Luchsinger, che, sia detto per inciso, ha 66 anni e continua a lavorare. E qui si apre un altro capitolo: i dati dicono che entro il 2025 il 60% dei medici di famiglia andrà in pensione. C’è dunque pure un problema legato al ricambio generazionale, anche a questo è dovuto il rischio collasso del nostro sistema sanitario.