La ripresa economica americana rallenta vistosamente, il Pil è cresciuto solo del 2% nell’ultimo trimestre. E Joe Biden ha dovuto ridimensionare i suoi progetti di investimenti pubblici nel lungo periodo, perché all’interno del suo stesso partito una corrente moderata teme lo spettro dell’inflazione. Anche la crescita cinese rallenta, perché il Governo di Pechino deve affrontare venti contrari: la bolla speculativa del settore immobiliare che lo stesso Xi Jinping ha voluto sgonfiare; la crisi energetica; l’aumento dei costi in molti settori. Ma tra le due superpotenze c’è anche un problema di «traffico»: le merci non transitano come dovrebbero, la globalizzazione ha perso fluidità. Agli ostacoli di natura nazionalista e protezionista che erano già aumentati sotto l’Amministrazione Trump, poi aggravati durante i lockdown, si aggiunge un male oscuro che colpisce molte catene produttive transnazionali e gran parte della logistica di trasporto.
Sorvolare Los Angeles e il suo porto di Long Beach è un modo per capire che cos’è il grande ingorgo globale che attanaglia le economie di tutto il mondo. Long Beach è il maggiore scalo merci di tutta la West Coast. Da qualche mese quel tratto di Oceano Pacifico è trasformato in un gigantesco parcheggio di navi «in rada», maxi-portacontainer costrette ad attendere al largo il loro turno per attraccare, poi scaricare o caricare. Le King Kong dei mari sono in situazioni simili in molti porti americani, asiatici, europei. Le infrastrutture marittime non riescono a smaltire l’enorme traffico che si è rovesciato su di loro, da quando le nostre economie sono uscite dalle restrizioni della pandemia e la ripresa produttiva si è messa a galoppare con ritmi robusti. Porti e terminali delle ferrovie merci, autostrade e Tir, tutta la filiera lungo la quale viaggiano i prodotti che aspettiamo sugli scaffali dei supermercati, si è trasformata in un imbuto. Le infrastrutture fisiche non hanno un’elasticità infinita, le banchine di un porto sono un numero fisso, non se ne costruiscono di nuove in pochi mesi; idem per i binari delle ferrovie. I camion potrebbero rispondere al boom di domanda con un po’ più di flessibilità, però qui interviene il fattore umano: scarseggiano camionisti in molti Paesi avanzati, quel mestiere è faticoso, stressante, ai livelli di remunerazione attuali evidentemente non appare abbastanza attraente. Da Amazon a Ups a Fedex, i giganti mondiali della logistica sarebbero felici di assumere più autisti, se solo li trovassero.
Il grande ingorgo globale ha anche altre facce e cause diverse. Un filo rosso unisce i tagli alla produzione in uno stabilimento della Toyota in Giappone; le lunghe dilazioni previste nelle consegne di certi articoli natalizi; la stangata sulle bollette elettriche degli europei; perfino la penuria di insegnanti nelle scuole materne e asili nido di New York. C’entrano cause eterogenee. C’è la difficoltà della transizione a un’economia sostenibile e l’ingordigia di energie carboniche da parte della Cina, causa dell’attuale shock energetico. C’è la penuria di semiconduttori legata in parte alla guerra fredda America-Cina. C’è un altro fenomeno, ancora pieno di misteri, che economisti e sociologi americani chiamano «la Grande dimissione» dal mercato del lavoro: la fuga di manodopera da certe mansioni, che vanno dalla ristorazione ad alcuni settori della scuola e della sanità. Questo mix eterogeneo concorre all’ingorgo globale, ha un nesso con la pandemia, ma era sfuggito alle previsioni. Tutto ciò che la maggioranza degli economisti prevedevano un anno e mezzo fa non si è realizzato. Non c’è stata la «Grande depressione da Covid», i numeri parlano al contrario di una recessione banale, assai meno grave della crisi del 2008-2011. Colpisce invece la brutalità degli andamenti, prima al ribasso poi al rialzo.
L’economia globale si è comportata come una Ferrari che il guidatore abbia sottoposto a un esperimento estremo: prima una frenata traumatica, ai limiti della capacità di decelerazione, poi una ripartenza a razzo. L’esperimento ha messo a dura prova le infrastrutture e non solo quelle. Anche le fabbriche hanno un’elasticità limitata: se le chiudi per mesi, o le costringi a lavorare a ritmo ridotto, poi non possono sovra-compensare in poco tempo, perché gli impianti non funzionano più di 24 ore su 24. Né puoi in poco tempo acquistare e installare nuovi macchinari, reclutare e formare nuovi tecnici. L’effetto-imbuto è dappertutto.
Inoltre questo stress-test ha messo a nudo le fragilità di catene logistiche troppo globalizzate, tanto più in un clima di crescente tensione geopolitica fra Washington e Pechino (ma anche fra la Cina e l’Australia, il Canada, il Giappone). Per cui allo stress oggettivo della frenata-ripartenza si è aggiunto un ripensamento strategico: siamo sicuri di voler affrontare la prossima pandemia – o un’altra crisi altrettanto imprevista, il «cigno nero» del futuro – con una dipendenza pericolosa da fornitori che stanno dall’altra parte del globo e potrebbero cessare all’improvviso di mandarci i loro prodotti? Il settore dei semiconduttori è un concentrato di tutti questi problemi. Perfino la Toyota ha dovuto tagliare fino al 40% di produzione di autovetture – ed è la numero uno mondiale, celebre per il «just-in-time» cioè una sincronizzazione perfetta dei flussi produttivi – perché non arrivano abbastanza micro-chip per l’anima elettronica delle auto. I semiconduttori hanno subito una rivoluzione geografica: un tempo erano concentrati nella Silicon Valley, oggi la California è al terzo posto dietro Taiwan e Corea del Sud. Con conseguenze inquietanti, in uno scenario di espansionismo della Cina. L’energia è un altro dei settori sconvolti dall’ingorgo. Quando la Cina ha ripreso a invadere il mondo dei suoi prodotti, ci si è accorti di quanto sia ancora incompiuta la sua transizione verso le energie sostenibili. Pechino ha allentato i limiti al consumo di carbone. La sua macchina produttiva girando di nuovo a regime pieno ha fatto schizzare al rialzo i prezzi di gas e petrolio, con ripercussioni sui consumatori occidentali. Tanto più che Big oil era in ritirata e stava disinvestendo dalle fonti carboniche. Lo stesso traino della domanda di Pechino ha provocato rincari di altre materie prime e semilavorati, incluse le derrate agricole.
La natura di queste tensioni turba le banche centrali, dalla Federal reserve alla Bce all’autorità monetaria cinese. Finora hanno tenuto duro sulla spiegazione rassicurante: l’ingorgo è transitorio, colpa dello «stop-and-go» troppo brutale, ma passerà. Ora si rafforza un’analisi alternativa. Potremmo essere agli albori di una nuova spirale prezzi-salari, quindi un rilancio durevole dell’inflazione. E gli psicologi vengono chiamati in aiuto dagli economisti per tentare di capire cosa sia accaduto nelle nostre teste durante la pandemia: se nelle fasce più basse del mercato del lavoro c’è stato un riesame della bilancia «costi e benefici esistenziali», le imprese dovranno accettare di pagare di più i mestieri essenziali per la ripartenza.