Quando l’illusione della sicurezza si spezza

L’uccisione dell’ex premier Shinzo Abe riporta il Giappone ad un passato caratterizzato da incomprensione e violenza
/ 18.07.2022
di Giulia Pompili

Per annunciare la sua morte ai media internazionali hanno aspettato che la moglie, Akie Abe, arrivasse all’ospedale di Nara dove Shinzo Abe – ex premier del Giappone – era stato ricoverato poche ore prima, privo di sensi e in collasso cardiaco. Un protocollo necessario per controllare le comunicazioni e il loro impatto sui media, ma anche una gentilezza nei confronti di questa donna di 60 anni, 30 dei quali trascorsi accanto a una delle personalità più importanti del paese. Shinzo Abe era un politico divisivo, controverso, ma una figura politica di quella statura, in Asia orientale, non si vedeva da parecchio tempo. Come da decenni non si vedeva un attacco a un politico nell’esercizio delle sue funzioni: un proiettile sparato a distanza ravvicinatissima durante un comizio elettorale. Per rivivere episodi di violenza politica di questo tenore, in Giappone, bisogna tornare indietro in un passato che ciclicamente viene messo da parte, accantonato, dimenticato. Dal Dopoguerra in poi, dopo la resa incondizionata dell’Impero giapponese che mise fine alla Seconda guerra mondiale in Asia, il paese del Sol levante, quello dell’imperialismo e delle colonizzazioni, si era trasformato in un luogo sicuro, con un tasso di microcriminalità quasi pari a zero, e in generale pacifico, complice una rigidissima legge sul controllo delle armi da fuoco.

Ma come ogni posto in cui la discussione pubblica può essere dura, violenta e polarizzata, il mito della sicurezza del paese è stato di tanto in tanto tradito. Soprattutto dalla criminalità organizzata: nel 2007 il sindaco di Nagasaki, Iccho Ito, è stato ucciso con un colpo di pistola per strada da un uomo in collera con il municipio, che si era rifiutato di risarcirlo dopo che la sua auto era stata danneggiata in un cantiere di lavori pubblici. Quell’uomo era Tetsuya Shiroo, boss locale legato alla Yamaguchi-gumi, una delle più grandi e potenti organizzazioni criminali della Yakuza giapponese.

La mafia nipponica è anche quella che ha a disposizione più armi da fuoco e i rari casi di cronaca in cui, di recente, sono state coinvolte pistole o fucili hanno quasi sempre a che fare con la Yakuza. In ogni caso, secondo l’Agenzia nazionale di polizia, nel 2021 in Giappone si sono verificati soltanto 10 incidenti con armi da fuoco. È rimasta uccisa solo una persona, in un paese di 126 milioni di abitanti. La legge sul controllo delle armi è stata introdotta in Giappone negli anni Cinquanta, ma è una tradizione che risale al Settecento, quando l’arma più usata era la spada (katana) e non la pistola. La strategia nipponica è sempre stata quella della de-escalation, anche negli scontri tra la criminalità e la polizia. Molto più di quelle occidentali, le forze dell’ordine giapponesi studiano le arti marziali, kendo e judo; usano più facilmente i manganelli rispetto alle pistole d’ordinanza. In questo modo, secondo gli esperti, si creano di rado situazioni di pericolo in cui polizia e criminali si confrontano con armi da fuoco. C’è anche una certa attitudine della società nipponica all’autocontrollo, al non creare disturbo negli altri, soprattutto quando si tratta di essere tra la gente, alla luce del giorno.

È anche per questo che a Shinzo Abe, ex primo ministro, come a tutti i politici di oggi nel paese, era permesso di fare intere campagne elettorali tra la gente, riducendo il più possibile la distanza anche fisica con gli elettori. Quando è stato ucciso si trovava su un piccolo podio posizionato ad una intersezione stradale davanti alla stazione ferroviaria della città di Nara. Aveva iniziato a parlare da circa due minuti quando il quarantunenne Tetsuya Yamagami è uscito dalla folla, si è avvicinato alle spalle all’ex primo ministro brandendo un’arma rudimentale, tenuta insieme da uno scotch da pacchi nero. Ha premuto il grilletto due volte. Al secondo, Abe si è accasciato a terra.

Si è discusso molto dello shock collettivo che ha provocato l’attentato contro Shinzo Abe. Un uomo che ha rappresentato molto per il Giappone, anche perché era uno dei pochi politici a essere riconosciuti all’estero, e che aveva dato stabilità al paese dopo un periodo di esecutivi che duravano al massimo un anno. Shinzo Abe era il volto di una diplomazia nuova, con idee fuori dalle rigidità burocratiche. Aveva carisma e, appena insediato per la seconda volta, nel 2012, iniziò a lavorare a un progetto che porta il suo nome, le Abenomics: una serie di politiche economiche coraggiose e innovative che ancora oggi vengono studiate dagli analisti.

Abe però era anche un leader controverso. La sua corrente all’interno del Partito liberal democratico giapponese era quella più nazionalista e conservatrice, faceva parte della Nippon Kaigi, una lobby di nazionalisti frequentata anche da esponenti del negazionismo e del revisionismo storico giapponese. Molti erano i suoi oppositori, in politica ma anche tra i cittadini. Lo shock collettivo provocato dalla sua uccisione, dunque, non si spiega soltanto con la statura della sua figura politica. Forse il suo attentato ha ricordato a molti quello contro suo nonno, Nobusuke Kishi, che era stato uno dei funzionari giapponesi nella Manciuria occupata e poi sfuggì alla condanna per crimini di guerra. Nel 1960 Kishi era primo ministro, fu accoltellato sei volte da un nazionalista scontento delle politiche di avvicinamento del Giappone all’America. Qualche mese dopo Inejiro Asanuma, leader del partito socialista giapponese, fu colpito a morte da un uomo armato di spada durante un dibattito televisivo. Gli anni Sessanta furono anni turbolenti per la politica giapponese; il clima poi addirittura peggiorò con l’arrivo del terrorismo dell’Armata rossa nipponica. L’attacco contro Abe ha fatto tornare i giapponesi a un passato che pareva sepolto, a una politica e una società arrabbiata e fuori controllo che sembrava dimenticata.

Secondo la polizia Tetsuya Yamagami, l’attentatore, non avrebbe agito con motivazioni politiche, ma a causa di un «risentimento» nei confronti di Abe. L’ex primo ministro aveva infatti appoggiato politicamente la Chiesa dell’unificazione, una setta religiosa a cui appartiene la madre di Yamagami e per colpa della quale la sua famiglia è finita in bancarotta (tale setta fu fondata nel 1954 dal predicatore sudcoreano Sun Myung Moon, divenuto celebre nell’America degli anni Settanta perché organizzava matrimoni di massa tra adepti). Ma al di là del movente, che emergerà probabilmente in fase processuale, un attacco a un uomo politico, con arma da fuoco, a due giorni dalle elezioni per il rinnovo di una parte del Parlamento, ha fatto emergere anche la fragilità dei sistemi di sicurezza per proteggere gli ex capi di governo. L’agenzia per la sicurezza pubblica giapponese ha aperto un’indagine. C’è da capire come mai i bodyguard di Abe non abbiano agito in tempo e perché il corpo di uno degli uomini politici più importanti del Giappone moderno, con la camicia macchiata di sangue, sia rimasto a terra così a lungo prima di essere trasportato in ospedale. Per i giapponesi il trauma collettivo più grande, forse, è questo: aver creduto di essere salvi, ma la violenza può esplodere anche in uno dei paesi più sicuri al mondo.