La paradossale vicenda della Superlega di calcio, lanciata con un blitz mediatico di domenica notte e naufragata poco dopo, racconta il tempo in cui viviamo. Sotto almeno tre profili: l’elitismo, la geopolitica europea e il senso dello sport. L’operazione era infatti quanto di più elitistico si possa concepire. I padroni dei principali club spagnoli – ispirati dal presidente del Real Madrid, Florentino Pérez – italiani, con la Juventus di Andrea Agnelli in testa, e inglesi avevano deciso di organizzarsi un para-campionato su misura. Un golpe vero e proprio, che avrebbe cancellato un secolo di calcio europeo, basato orizzontalmente sui campionati nazionali e, verticalmente, su un sistema di tornei comunicanti, dai dilettanti alla Serie A ed equivalenti, in cui almeno in teoria si parte tutti alla pari e vince chi per merito, fortuna o altro batte l’avversario.
Quel che colpisce in tanta operazione di supermiliardari che gestiscono club in profondo rosso è la totale mancanza di senso del loro prodotto. Conta per loro solamente il lato finanziario. Ma i soldi, nel calcio come in qualsiasi altra industria, non sono variabile indipendente. Dipendono ancora dal prodotto. Le bolle finanziarie, ovvero la produzione di denaro per mezzo di denaro, prima o poi scoppiano. E scoppiano in faccia a chi ne è rimasto affascinato, senza nemmeno aver studiato la dinamica classica dello «schema Ponzi» (un modo di ingannare gli investitori che prende il nome da un emigrante italiano, Charles Ponzi, che all’inizio del Novecento truffò decine di migliaia di persone negli Usa).
Nel caso, i signori del pallone non avevano capito che il calcio esiste e funziona in quanto ci sono i tifosi. I quali ci sono perché pensano, credono, si illudono che le partite comincino tutte dallo zero a zero. Un calcio sul modello americano, stile National basketball association (Nba), è impensabile. Le gare sarebbero semplici esibizioni, prive di pathos, con accompagnamento musicale e pubblicitario tale da togliere ogni slancio agonistico alle partite. Peccato di elitismo, dunque.
Sarà bene tenerlo a mente in un’epoca in cui le élite transnazionali, ovvero chi si riconosce nel suo pari ceto di un altro Paese piuttosto che negli altri ceti del proprio, hanno inventato il marchio del «populismo» o delle «fake news» cui impiccare chi non condivide le loro tesi. Alimentando proprio quel fenomeno di rivolta, prima ancora di repulsione popolare, che intenderebbero condannare.
Quanto alla geopolitica. A far crollare il castello di carta è stato Boris Johnson. Il premier inglese, che la sua gente conosce bene, ha un progetto e un marchio: Global Britain. La sua Inghilterra è uscita dall’Unione europea per rilanciare la potenza e con essa l’identità britannica (nel caso di Johnson, inglese). Operazione anche e soprattutto di soft power. Ora, che cosa di più potente ha oggi Londra, quanto a soft, della Premier league? La Superlega ne avrebbe decretato la morte. Johnson ha cavalcato l’umore dei tifosi, quelli che la sera stessa di domenica sono scesi in piazza a Londra – specie se del Chelsea – con cartelli tipo «I want my cold evenings in Stoke back», «Rivoglio le mie fredde serate a Stoke» (riferimento allo Stoke city, squadra di provincia inglese).
Anche il presidente francese Emmanuel Macron e Mario Draghi, presidente del Consiglio italiano, hanno stigmatizzato l’idea. Per dire: si può appartenere alle élite e allo stesso tempo essere intelligenti. Ovvero capire il proprio tempo e il proprio popolo. Questo per stabilire, nel caso ve ne fosse bisogno, che non esiste un’opinione pubblica europea (come pensavano i maghi della Superlega) ma resistono le opinioni nazionali (e locali). E su quelle si fondano, fra l’altro, le democrazie liberali europee.
Infine, lo sport. Siamo talmente abituati alla virtualità da avere talvolta perso di vista la concretezza dell’agonismo. Che non potrà mai essere surrogata da qualsiasi messinscena mediatico-pubblicitaria. L’uomo e le collettività che forma hanno e avranno ancora bisogno di miti. Di leggende da raccontarsi. Lo sport è sempre stato, da Olimpia in poi, veicolo privilegiato dei miti. Florentino Pérez e associati sembrano averlo dimenticato. Non si curano che dei soldi. Per contrappasso, ne stanno perdendo tanti. Succede a chi volge l’economia in economicismo, cioè in ideologia di sé stessa. Un’ideologia che, qualche volta, dura il tempo di poche notti. Speriamo che almeno quell’autogol possa servire a rimettere il calcio con i piedi per terra. Prima che affondi nel fango.
Quando la superbia non va in rete
Il progetto di una Superlega europea di calcio è naufragato in un lampo. I promotori hanno pensato soprattutto al denaro e sottovalutato la reazione dei tifosi. A pesare anche la discesa in campo di Johnson e Draghi
/ 26.04.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo