Boris Johnson non ci annoierà. Il nuovo premier britannico non è solo istrionico e imprevedibile, perenne recitatore di sé stesso. L’ironia della storia vuole che una personalità tanto peculiare assuma la massima responsabilità politica del Regno Unito nel momento in cui la monarchia britannica attraversa la sua crisi più seria dalla Seconda guerra mondiale. Una delle differenze non secondarie fra allora ed ora sta anche nella diversità dei leader: non che Winston Churchill – fra l’altro, l’idolo del suo attuale successore, che gli ha dedicato una spumeggiante biografia – fosse personalità banale, ma a confronto di Boris Johnson potrebbe classificarsi flemmatico. In ogni caso l’incrocio fra il carattere di Boris e i nodi che sarà chiamato a sciogliere o a tagliare nei prossimi tre mesi promette scintille.
Tutti siamo concentrati sulla scadenza del 31 ottobre, quando in teoria scade il termine ultimo per trovare un accordo fra Unione Europea e Regno Unito tale da permettere una fuoriuscita concordata di quest’ultimo dalla prima. Johnson ha detto e ripetuto che è pronto a sancire la secessione dall’Ue senza intesa. Il no deal non è tabù. Sembra anzi che il premier lo desideri, magari per fare della Brexit secco il perno di elezioni da svolgere in ottobre per rinsanguare la sua maggioranza parlamentare, organizzata intorno all’esecuzione della volontà popolare così come fissata tre anni fa dal referendum voluto da David Cameron.La questione centrale, a lungo sottovalutata, è quella irlandese. Londra non vuole che dopo la Brexit si stabilisca un regime frontaliero che separi il suo status da quello di Belfast, quale scaturirebbe dalla volontà comunitaria di mantenere, in una forma o nell’altra, l’apertura del confine fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda al traffico di persone e merci.
In caso di ritorno al controllo «duro» della frontiera fra l’Irlanda britannica e quella indipendente, derivante dall’uscita della prima dall’Ue e dalla permanenza della seconda nello spazio comunitario, si riaprirebbe la stagione della violenza nell’Irlanda del Nord fra protestanti e cattolici, unionisti britannici e indipendentisti irlandesi. Nell’attesa, cresce il movimento che punta alla riunificazione dell’isola sotto Dublino, cui comincia ad inclinare anche parte dei protestanti. Nella frenetica e confusa bagarre sulla Brexit si era persa inizialmente di vista la dimensione geopolitica del problema. Molti, a Bruxelles e nelle principali capitali europee, non coglievano il fatto elementare – forse troppo elementare – che il Regno Unito non ha solo confini marittimi, ma anche uno terrestre, nel cuore dell’Irlanda. E che dividere quell’isola in due tronconi, uno dentro (la Repubblica) l’altro fuori (l’Irlanda del Nord, che con Scozia, Galles e Inghilterra configura il territorio matrice della monarchia britannica) è ardua chirurgia di prima classe.
Quasi impossibile anche per un politico spericolato come Johnson.Il vero dilemma che il nuovo premier conservatore è chiamato ad affrontare non riguarda quindi solo né tanto la Brexit, quanto l’unità del Regno Unito. Al di là della questione irlandese, consideriamo i seguenti fatti.Primo: la divisione fra Remain e Leave non spiega tutto. Non c’è netta bipartizione fra chi non vuole la secessione dall’Unione Europea e chi intende mantenere unito il Regno Unito. Il Remain londinese o generalmente inglese non è il Remain scozzese (per certi versi perfino gallese, dove emerge una finora sotterranea vena separatista). I primi vogliono restare sotto la Corona britannica e allo stesso tempo nell’Unione Europea. I secondi sono pronti a un secondo referendum sull’indipendenza entro il 2021, se Brexit sarà. E a quel punto il fantasma della Scozia indipendente potrebbe farsi realtà.
Secondo: sta sorgendo un indipendentismo inglese, trasversale al Remain e al Leave, che minaccia di rivendicare le autonomie di cui fruiscono in diversi gradi e modi Edimburgo, Cardiff e Belfast – frutto della devoluzione avviata da Tony Blair alla fine degli anni Novanta – spingendosi fino a considerare la nascita di un’Inghilterra indipendente, emancipata dalla sua frangia celtica.Terzo: Londra non è solo la capitale del Regno Unito. Sempre più si sente e si muove come entità a sé, città Stato multiculturale e liberale, contrapposta al conservatorismo sui generis di Johnson. Da molti paragonato a Donald Trump.Insomma, Johnson è di fatto oggi primo ministro più o meno fino ai dintorni del Vallo di Adriano. È il capo dell’Inghilterra, molto meno del Regno Unito. Johnson divide l’Irlanda britannica e la stessa capitale, cuore economico, finanziario e culturale del paese. Nelle sue velleità di ritorno alle glorie imperiali, forse Johnson passerà alla storia come colui che ha finito per uccidere ciò che resta dell’impero. Facendone saltare il nucleo britannico. A quando il Regno Disunito?