La campagna per le elezioni europee finisce come era cominciata, con un’enorme spaccatura ideologica e politica sul futuro del continente. Ora è tempo di sondaggi e di previsioni, di ultimi calcoli e di molti allarmismi: i partiti sovranisti che hanno scelto lo scrutinio europeo per urlare il loro antieuropeismo – contraddizione assoluta ma nota: già nel 2014 andò così – sono destinati ad andare bene, anche se l’unico obiettivo che riusciranno a centrare sarà quello della frammentazione, che poi si traduce in cupa ingovernabilità.
Un po’ di numeri: il Partito popolare europeo, la famiglia conservatrice, è data a 170 seggi (il totale è 751), in calo di 46 seggi; il Partito socialista europeo è altrettanto in calo, 144 seggi contro gli attuali 182. La maggioranza – che è una grande coalizione – non c’è, bisogna aggiungere i voti dell’Alde e del francese Emmanuel Macron per raggiungerla: questo è l’assetto finale di cui tutti stanno discutendo.
Il mondo sovranista ha trovato nel ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, leader della Lega, il suo capobranco: è lui che ha costruito l’alleanza più forte dei partiti di estrema destra e il suo gruppo raddoppierà i seggi attuali del gruppo (più ristretto). La federazione completa con gli altri gruppi non gli è ancora riuscita per ovvi motivi: i nazionalisti faticano ad allearsi, sottolineano le loro convergenze ideologiche e trovano nella retorica anti immigrati il loro collante, ma poi su molte questioni la pensano in modo diverso.
La sommatoria di interessi «first» non dà un interesse collettivo, e questo si vede in modo chiaro quando si discute di solidarietà economica di cui l’Italia, prima fra tutti i paesi, potrebbe avere in futuro un certo bisogno, considerando che nelle previsioni economiche della Commissione europea è all’ultimo posto. Ma questi sono dettagli che i sovranisti difficilmente discutono, presi come sono dalla costruzione dell’onda mediatica contro il vecchio sistema europeo, alla quale alcuni partiti, compresa la stessa Lega, hanno contribuito con una dedizione spietata.
Il Brexit Party, partito nato da pochi mesi nel Regno Unito su iniziativa del superfalco divorzista Nigel Farage, è il simbolo di questa offensiva: in alcuni sondaggi ha più consensi dei Tory e del Labour insieme e anche se poi non dovesse andare così bene di certo questa campagna elettorale è stata sua. Gli europei si consolano pensando che, se Farage ottiene quello che vuole, cioè la Brexit, il suo posto all’EuroParlamento sarà il primo a decadere, e nella redistribuzione dei seggi inglesi probabilmente ci sarà solo da guadagnare.
L’autolesionismo britannico è ormai leggenda, ma le preoccupazioni più grandi arrivano dalla Francia, dove si combatte la madre delle battaglie di queste elezioni: Emmanuel Macron contro Marine Le Pen. La riedizione dello scontro delle presidenziali del 2017 pareva già vinta, il presidente europeista non soltanto era forte in Francia ma stava anche cercando di replicare il progetto di En Marche in Europa, stravolgendo le famiglie politiche tradizionali. Il progetto è naufragato già molto tempo fa perché l’energia di attrazione che il movimento di Macron aveva esercitato in Francia – il segreto del suo successo – non si è concretata in Europa, dove gli interlocutori sono molti e l’abitudine è alta.
Il grande fronte europeista e centrista non si è formato: dal Partito popolare europeo – che sarà il primo partito, secondo i sondaggi, ma con una riduzione dei seggi – non ci sono state fuoriuscite e anzi la famiglia conservatrice si è compattata contro Fidesz, il partito al governo in Ungheria, che è stato sospeso. Il Partito socialista europeo, rinvigorito dalla vittoria di Pedro Sanchez in Spagna e dalla presenza del Labour inglese alle elezioni, non ha avuto scossoni, non ancora per lo meno.
Macron ha deciso di federarsi con i liberaldemocratici europei, l’Alde, e insieme hanno dato vita a «Renaissance», rinascita, il nuovo gruppo centrista che farà da base per le eventuali alleanze future: la prima campagna acquisti potrebbe essere in Italia, con il Partito democratico. Ma ogni decisione è rimandata a dopo le elezioni: prima bisogna contarsi. La nuova formazione conta di essere la terza gamba della prossima maggioranza all’EuroParlamento, assieme a conservatori e socialisti e il presidente francese vuole anche spezzare il meccanismo dello Spitzenkandidat, il candidato leader di un partito europeo che diventa presidente di commissione.
Su questo fronte, la frattura con Berlino è evidente, più con Annegret Kramp-Karrenbauer, che è destinata a prendere il posto di Angela Merkel, che con la cancelliera stessa (la quale, cinque anni fa, non era molto contenta degli Spitzenkandidaten), ma ancora non si è consumata la battaglia. Intanto i candidati «vorrei ma non posso» si moltiplicano: il più chiacchierato è il francese Michel Barnier, caponegoziatore della Brexit, che si è messo a girare capitali con fare ambizioso.
Macron deve però vincere le elezioni europee: lui che è il cantore dei valori dell’europeismo, che ha molti progetti per riformare l’Europa e che ha invertito la polarità con la Germania di Angela Merkel senza litigare poi troppo, non può essere sconfitto dal sovranismo. Sarebbe un colpo molto forte per gli europeisti, che restano sì maggioranza nonostante il vociare dei nazionalisti, ma che dovrebbero leccarsi ferite dolorose: la Francia macroniana è l’argine del populismo, se venisse intaccata, foss’anche a elezioni che, come si sa, sono viste più come un esperimento che come una scelta consapevole, sarebbe un segnale invero poco rassicurante. I sondaggi per ora sono da colpo al cuore: pareggio, o la Le Pen davanti, nonostante il suo bilancio in Europa sia molto poco rilevante.
Questa è un’altra costante dei partiti sovranisti e la dimostrazione che la loro retorica su «buon senso» e «cambiamento» non ha nulla di concreto: all’EuroParlamento sono noti più per l’assenteismo o per i video postati sui social che per i risultati ottenuti. Hanno rubato tutto ai moderati europeisti, le parole soprattutto, ma poi per governare l’Unione europea servono altre qualità.