L’èra di Angela Merkel è al tramonto. Quanto lungo sarà il crepuscolo, nessuno può dire. Lei stessa ha fissato al 2021, scadenza naturale della legislatura, il suo limite. Non si ricandiderà alla cancelleria. Ma nessuno si sorprenderebbe se già il 2019 vedesse il suo ritiro, magari subito dopo le elezioni europee di maggio. Intanto, per tutelarsi, la CDU, interpretando in questo caso l’indicazione della cancelliera, ha eletto di stretta misura Annegret Kramp-Karrenbauer, più nota come AKK o mini-Merkel, quale sua nuova presidente e quindi probabile erede della «Mutti» alla guida del più importante paese europeo.
Perché il declino della cancelliera, e quali prospettive apre? Due ragioni su tutte: il logorio del potere e l’errore commesso da Angela Merkel nell’estate del 2015, aprendo le frontiere a un milione di profughi siriani, afghani e iracheni, salvo subito richiuderle di fronte all’insofferenza popolare. Fin qui la cronaca. Ma la questione è molto più profonda.
Riguarda anzitutto il sistema politico. Per la prima volta si sta tornando a criteri weimariani, quando la rappresentanza in parlamento era talmente pletorica e variopinta da rendere difficile la formazione di governi stabili e popolari. Il netto calo della CDU alle elezioni politiche del settembre 2017, la sconfitta della CSU in Baviera l’autunno successivo, il crollo della SPD, ormai al di sotto del 20% in ogni elezione, segnalano la crisi complessiva dei cosiddetti «partiti del popolo», o meglio partiti di massa. I gemelli diversi di matrice democristiana (la CDU sul piano nazionale, la CSU su scala bavarese), peraltro sempre più litigiosi specie sulla politica migratoria, hanno perso voti sia a vantaggio dei Verdi, in formidabile ascesa, sia del più nuovo e allarmante partito del panorama politico federale, l’Alternativa per la Germania (Alternative für Deutschland, AfD).
Vale la pena soffermarsi su questa nuova forza. Quando in Germania un partito apertamente nazionalista, con venature xenofobe e qualche infiltrazione neonazista, ottiene il 12,6% dei voti alle elezioni politiche e poi si installa in tutti i parlamenti dei 16 Länder, scatta l’allarme. Le ragioni di questa affermazione sono diverse, ma riassunte nel nome: Alternativa per la Germania. Alternativa perché non è vero, come la Merkel non s’è mai stancata di ripetere, che la sua politica, specie quanto alle immigrazioni e all’approccio agli stranieri (11 su 83 milioni di abitanti della Repubblica Federale, ormai uno degli Stati più multietnici del mondo), fosse e sia alternativlos. Senza alternative. L’AfD pone la questione identitaria: la preservazione della tradizione nazionale in termini di lingua, cultura, religione. Niente multiculturalismo. No ai ghetti e alle società parallele. Basta islamici (sottofondo: basta ebrei), con cui non abbiamo nulla da spartire.
Idee, ma anche fatti, come confermano le manifestazioni di piazza organizzate dall’AfD o da forze ad essa affini, quali PEGIDA, movimento autodeputato a proteggere la civiltà occidentale dalle infiltrazioni musulmane. Esibizioni di forza talvolta degenerate in violenza. Con gruppetti neonazi a cantare inni del Terzo Reich, disegnare svastiche e tendere il braccio nel saluto hitleriano.
Sarebbe tuttavia sbagliato stabilire l’equivalenza fra AfD e nazisti. Non solo perché nel nuovo partito vi sono correnti relativamente moderate, attribuibili a influenze del conservatorismo classico, ma perché almeno nel discorso pubblico i suoi dirigenti restano nelle regole e nelle procedure della democrazia. Di più: squalificare un partito che nei sondaggi sembra ormai rappresentare un elettore su sei significherebbe fargli un’enorme propaganda. I 94 deputati – qualcuno nel frattempo sta lasciando il gruppo parlamentare – non possono essere demonizzati, semmai socializzati alla democrazia. L’importante è evitare che di qui scocchi una scintilla antidemocratica e illiberale, che riproporrebbe scenari da anni Trenta.
È inoltre fondamentale ricordare che la radice dell’AfD è piantata nell’ex Repubblica Democratica Tedesca. L’altra Germania, che secondo Kohl avrebbe presto raggiunto il benessere e la tranquillità della Bundesrepublik originaria. Così non è né sarà prossimamente. Soprattutto nelle teste, la diversità si vede, anzi cresce. Con qualche buona ragione, i tedeschi dell’Est si sentono emarginati, trattati da cittadini di «serie B», esposti a ondate di violenza che loro attribuiscono agli immigrati mentre spesso vengono proprio da chi ne denuncia il sovrannumero.
Il primo compito della nuova cancelliera – o cancelliere – sarà quindi di portare a compimento quello che Kohl e Merkel hanno solo iniziato, e talvolta malamente: riunire davvero i tedeschi in un solo Stato.