La morte di Evgeny Prigozhin segna la fine di un periodo – breve, intenso e paradossale – dell’involuzione del regime di Vladimir Putin, e l’inizio di una nuova fase inedita. La coesistenza, dopo l’ammutinamento del gruppo Wagner del giugno scorso, tra un golpista e il capo di Stato che aveva tentato di rovesciare, non poteva durare a lungo. I due mesi trascorsi tra la marcia su Mosca dei mercenari di Prigozhin e l’esplosione del suo aereo a poche decine di chilometri dalla dacia di Putin nel nord russo, sono stati una tregua necessaria a evitare un collasso del Cremlino, che aveva bisogno di tempo e risorse per scovare gli eventuali alleati dei ribelli, isolare gli scontenti nell’esercito e mettere in sicurezza in altre mani i possedimenti (economici e militari) di Wagner in Africa. Due mesi nel corso dei quali tutti i membri del mondo politico russo stavano osservando il presidente, considerato universalmente come indebolito, e il suo «cuoco», considerato ormai da molti il vero fulcro della politica russa (e per molti, inclusi alcuni liberali, anche l’unica speranza per far finire la guerra in Ucraina).
Qualcuno continua a credere che il 62enne capo di Wagner sia ancora vivo, forse latitante in qualche Paese africano, con una delle sue barbe finte e passaporti falsi come quelli rinvenuti nella sua residenza durante le perquisizioni post-golpe. Se si è trattato di una uscita di scena spettacolare, comunque non può essere avvenuta senza il consenso del Cremlino, come mostra anche la reazione incredibilmente rapida dei media e delle autorità russe, che pochi minuti dopo la notizia della sciagura aerea già riferivano i nomi delle vittime, tra cui Prigozhin e i suoi due collaboratori più importanti. Perché prendessero incautamente lo stesso aereo insieme, e che fine farà l’archivio del «cuoco di Putin» – che contiene presumibilmente prove inconfutabili del coinvolgimento delle «fabbriche dei troll» di Prigozhin nel Russiagate delle elezioni di Donald Trump nel 2016, dei crimini di guerra in Siria, dei golpe riusciti e non in Africa, e dei massacri commessi dal Wagner in Ucraina – sono domande a cui probabilmente non arriverà mai una risposta esauriente. In ogni caso, vera o inscenata, è la morte di Prigozhin come protagonista della politica russa, e la fine del suo esercito privato. E nessuno dubita che questa morte non sia dovuta a un incidente.
Perfino molti putiniani di ferro parlano esplicitamente di «omicidio», a volte attribuendo l’attentato, senza troppa convinzione, ai servizi segreti ucraini. Putin riafferma il suo «diritto del capo». Il messaggio principale mandato dall’esplosione del jet privato del capo del Wagner è chiaro e brutale: nessun dissenso, nessuna critica, nessuna esitazione, il Cremlino esige soltanto una fedeltà assoluta. Si tratta di una buona notizia per l’Ucraina: una guerra condotta da generali corrotti che dicono sempre di sì al presidente non potrà che essere meno efficace di quella condotta da un gruppo di mercenari esperti e indipendenti. La seconda buona notizia (relativamente) è il segnale ai falchi ultranazionalisti che chiedono la «guerra totale», la mobilitazione generale e la legge marziale: Prigozhin è morto, il suo arcirivale e altro grande critico dei generali putiniani, Igor Strelkov, è in carcere per «discredito delle forze armate», il «generale Armageddon» Sergey Surovikin è stato destituito dal comando delle forze aerospaziali russe, e i membri del Wagner promettono terribili vendette, ma intanto numerosi mercenari sono stati reclutati dai nuovi eserciti privati dei fedelissimi putiniani, tra cui il Redut del petroliere Gennady Timchenko e il Convoy del «premier» della Crimea annessa Sergey Aksyonov.
Il posto del «ribelle» che rappresenti lo scontento è dunque ora vacante. Gli oppositori liberali sono stati esiliati o incarcerati già all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, ora le repressioni toccano i putiniani stessi, in primo luogo l’ala più a destra, quella del filosofo Aleksandr Dugin che invita a pregare per Prigozhin. Potrebbe essere un’altra «buona notizia», se non fosse che paradossalmente i falchi erano molto più critici e realisti sull’impossibilità per la Russia di conquistare l’Ucraina. È vero che con Prigozhin viene eliminato un protagonista che aveva reso la brutalità da gang criminale il «new normal» della vita russa: basti ricordare il video con l’esecuzione di un soldato «traditore» a martellate, con il successivo invio del martello con finte macchie di sangue al Parlamento europeo. Però è vero anche che la sua eliminazione altrettanto brutale conferma la degenerazione del regime putiniano in una guerra per bande, senza più alcuna regola o garanzia che non sia la volontà del capo.
Se è questo il principio che Putin voleva ribadire, al 24simo anno al Cremlino e l’anno prima di una quinta rielezione alla quale si avvia con quello che il politologo d’opposizione Abbas Gallyamov ritiene essere al massimo il 30% dei consensi reali, questa è invece una pessima notizia. Significa che la guerra continuerà molto più a lungo perché al Cremlino non rimarranno persone che avranno il coraggio di dire al dittatore di fermarsi. E che i tentativi diplomatici dell’Occidente e dell’Oriente devono tenere conto di non avere di fronte uno Stato, seppure dittatoriale, ma semmai una satrapia di stampo mafioso. Per i contendenti di Mosca invece, l’eliminazione di un concorrente scomodo e potenzialmente forte – basti vedere gli altari improvvisati per Prigozhin a Pietroburgo e Rostov-sul-Don – rappresenta insieme un sollievo, un invito alla prudenza e un avvertimento. D’ora in poi il Cremlino gioca senza più regole, e quindi il prossimo che lancerà una marcia su Mosca non si fermerà a 200 Km di distanza.
Putin riafferma il suo «diritto del capo»
L’eliminazione di Evgeny Prigozhin conferma la degenerazione del regime russo in una guerra per bande, senza più alcuna regola o garanzia che non sia la volontà del dittatore. Cosa significa questo per Kiev
/ 28.08.2023
di Anna Zafesova
di Anna Zafesova