Con il raid missilistico degli Usa contro la Siria, il termometro delle relazioni tra Mosca e Washington ha segnato un nuovo minimo storico. Donald Trump nei suoi tweet ha accusato Vladimir Putin di sostenere l’«animale» Assad, e l’ha canzonato sui «nuovi meravigliosi missili intelligenti» americani che dovevano abbattersi sulla Siria, un’allusione evidente ai razzi «senza analoghi mondiali» che il presidente russo aveva presentato al parlamento durante la sua recente campagna elettorale. L’attacco alla Siria, e la nuova sventagliata di sanzioni contro la Russia, hanno segnato una nuova offensiva della Casa Bianca nei confronti del Cremlino, alla quale Mosca per ora non ha reagito. Nonostante le «conseguenze» minacciate dall’ambasciatore russo a Washington, e alle promesse dei vari esponenti del governo e del comando militare russo di colpire, in caso di attacco contro Damasco, le basi di lancio dei missili americani, la contraerea russa non ha mosso un dito nella notte del raid. Ufficialmente, hanno comunicato al ministero della Difesa russo, i Tomahawk americani «non hanno sorvolato le zone di competenza» delle batterie russe. Il Pentagono afferma di non aver avvertito i russi degli obiettivi dell’imminente attacco, tranne il solito comunicato nell’ambito dell’organismo sulla sicurezza dei voli, ma a Damasco dicono di aver sgomberato per tempo i siti nel mirino dei missili Usa perché avvertiti dagli alleati di Mosca.
In altre parole, i russi, come già altre volte, hanno mostrato di avere una «red line», quella di non ingaggiare uno scontro diretto con la potenza militare statunitense. Una paura condivisa anche al Pentagono, dove anche nei raid precedenti contro la Siria sono sempre stati attenti a scegliere bersagli dove non fossero stati presenti militari russi, e ad avvertire per tempo la controparte. Una logica comprensibile: in caso di un attacco diretto, accidentale o intenzionale, Mosca si sentirebbe in dovere di reagire, sapendo di non avere la potenza militare e politica di farlo, e rischiando di aprire un conflitto di dimensioni globali. E così, le famigerate batterie della contraerea S-400, inviate da Putin in Siria, sono rimaste inattive, e pur conoscendo, come probabile, in anticipo i bersagli dei raid, i militari russi non sono andati a fare da scudo all’alleato siriano.
Un segnale importante, che conferma quello che molti a Mosca dicono nemmeno tanto sottovoce: Putin non ha nessuna intenzione di aggravare la sua situazione per colpa di Assad, e sta cercando una exit strategy da una guerra i cui costi, politici ed economici, stanno superando i potenziali benefici. La morte sospetta di un giornalista russo caduto dal balcone della sua abitazione dopo aver indagato sui contractor russi morti in Siria potrebbe essere un altro segnale del fatto che la guerra, iniziata nel settembre 2015 essenzialmente per distrarre l’opinione pubblica dal fallimento di quella nel Donbass, e per rientrare nel gioco della diplomazia internazionale nonostante le sanzioni, sta costando troppo alla Russia. Anche sul fronte diplomatico le sabbie mobili della Siria rischiano di peggiorare la posizione di Mosca, sempre più esplicitamente schierata con Damasco e Teheran sul fronte sciita, minacciando di peggiorare in questo modo i suoi rapporti tradizionalmente forti con il mondo sunnita (corrente alla quale appartengono anche i musulmani russi). Putin sta anche corteggiando da qualche anno partner nuovi come l’Arabia Saudita, e dopo il raid americano ha visto allontanarsi di nuovo anche l’amico-nemico Erdogan, che ha applaudito all’azione militare degli Usa. Nei giorni scorsi a Mosca è arrivata una delegazione libanese che chiedeva al Cremlino forniture commerciali e militari, e la protezione aerea sul modello siriano. I colloqui non hanno prodotto nulla, ma gli Hezbollah spingono per un maggiore coinvolgimento russo, che Mosca forse vuole rimandare per non vincolarsi definitivamente all’Iran e lasciarsi uno spazio di manovra.
La reazione russa ai missili lanciati da Trump infatti è stata molto più pacata del previsto, tranne una dichiarazione di condanna di Putin e una rituale convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con un altrettanto prevedibile veto incrociato tra russi e americani. L’unica rappresaglia vera è stata l’offensiva mediatica di migliaia di troll che sui social di tutto il mondo hanno promosso la propaganda russa, secondo la quale il raid americano in realtà sarebbe fallito e i missili sarebbero stati abbattuti dalla contraerea siriana. Mosca intanto sta aspettando eventuali nuove sanzioni americane, dirette a punire la sua presunta complicità nell’attacco chimico a Douma. L’ultima tornata di sanzioni, lanciate da Washington il 6 aprile scorso, ha fatto franare il rublo rispetto al dollaro e all’euro, e provocato il crollo in Borsa di molti titoli russi. La ragione di questa reazione è la sostanziale novità del provvedimento del Tesoro americano: a essere colpiti sono stati, oltre ad alti funzionari del governo russo, anche gli oligarchi, in particolare Oleg Deripaska, il magnate dell’alluminio che aveva contatti con Paul Manafort, l’ex capo della campagna di Trump implicato nel Russiagate. Ma ci sono anche altri nomi, come quello di Kirill Shamalov, il genero (ormai ex) di Putin, Suleiman Kerimov (incriminato per riciclaggio in Francia) o i presidenti dei colossi statali Gazprom e VTB. In altre parole, gli Usa applicano ora le sanzioni non solo a politici, funzionari o imprenditori direttamente coinvolti nell’annessione della Crimea, nelle guerre nel Donbass e in Siria o nei cyber attacchi contro i Paesi occidentali, ma anche oligarchi lontani dalla politica. Il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin ha spiegato che l’obiettivo è «colpire chi beneficia del regime». Una strategia che dovrebbe spingere l’élite russa a fare pressioni sul Cremlino per allentare le tensioni con l’Occidente, per non perdere tutto: Washington ha anche ampliato l’azione delle sanzioni, che ora potrebbero colpire anche chiunque offra «assistenza finanziaria» agli oligarchi della lista nera, e ha imposto agli azionisti americani delle aziende colpite di vendere.
Una strategia della terra bruciata, che nelle intenzioni dovrebbe mettere in guardia i sostenitori di Putin. Il problema è che nel sistema russo è quasi impossibile avere soldi e potere senza stringere un’alleanza più o meno stretta con il governo, e quindi potenzialmente chiunque in Russia oggi è a rischio, come dimostrato dal crollo in borsa anche dei titoli delle società di oligarchi esenti dalle sanzioni. Anche molti Paesi dell’Unione Europea vorrebbero estendere le sanzioni alla Russia seguendo questo modello, passando quindi da una punizione «mirata» dei responsabili delle politiche di Mosca alla trasformazione in persone non grate dei vip russi in generale. Il mercato russo si aspetta il peggio, anche dalla inevitabile rappresaglia del Cremlino. Tra le misure proposte, un embargo alla vendita negli Usa del titanio e dei propulsori per i razzi spaziali russi (una misura che perfino un «falco» come il vicepremier responsabile per l’industria bellica Dmitry Rogozin ha definito come «spararsi nel piede»), il divieto di acquistare medicinali americani (una condanna per migliaia di malati), il bando del software made in Usa dai pc di ministeri e municipi (semplicemente impraticabile) e la sospensione del diritto esclusivo dei marchi commerciali americani (in altre parole, la Russia si darebbe alla pirateria industriale). Misure che danneggerebbero semmai il consumatore e il produttore russo, e che mostrano che il Cremlino non ha in mano carte forti da giocare nel nuovo braccio di ferro.