Al summit bilaterale fra Vladimir Putin e Xi Jinping l’Ucraina è rimasta marginale. Il grosso del vertice di Mosca è stato dedicato al rafforzamento della cooperazione tra le due superpotenze. Chi in Occidente si era illuso che questo fosse il momento per una iniziativa di pace cinese, per adesso resta a mani vuote. Il «piano di pace di Xi», se proprio vogliamo chiamarlo così, si limita ad alcune blande affermazioni di principio sulla sovranità e sulla pace, accenna a un cessate-il-fuoco, che però dovrebbe accompagnarsi all’immediata levata di tutte le sanzioni contro la Russia. Questo lascerebbe a Putin il controllo del 13 per cento del territorio ucraino che ha invaso e occupato con la violenza; gli darebbe il tempo per riarmarsi e preparare un successivo capitolo della sua aggressione; non offrirebbe alcuna garanzia sulla sicurezza futura dell’Ucraina, per non parlare della sete di giustizia per le tante vittime dei bombardamenti russi. Non è necessario trovarsi in sintonia con Joe Biden per considerare che il piano di pace cinese non esiste. Semmai stupisce che tanti in Occidente avessero circondato il vertice di Mosca di aspettative assurde. Bastava leggere i media governativi di Pechino per capire che la visita di Xi sarebbe servita a rafforzare l’intesa tra le due superpotenze orientali, non a «mediare» con gli altri.
Xi nei tre giorni della sua visita a Mosca ha reiterato la sua visione del mondo e del nuovo ruolo che la Cina intende svolgere. È utile situarlo nel contesto storico, cioè osservando la distanza rispetto al profilo internazionale che la Cina ebbe in passato. Durante l’epoca del comunismo radicale di Mao Zedong, la Repubblica Popolare «esportò la rivoluzione», appoggiando forze radicali in tutto il mondo, spesso in aperta rivalità con l’Unione Sovietica (URSS). Una fase diversa si aprì dopo la morte di Mao nel 1976. Il successore Deng Xiaoping adottò una politica estera di basso profilo, prudente. Non era la rinuncia a svolgere un ruolo globale, era la consapevolezza che la Cina doveva prima costruire le fondamenta della sua potenza, dissimulando le proprie ambizioni per non suscitare sospetti e contromisure negli altri.
La transizione all’economia di mercato venne gestita in accordo con gli Stati Uniti e questi ultimi ebbero un ruolo essenziale nel consentire che la Cina bruciasse le tappe dello sviluppo fino a diventare la seconda economia mondiale. Il culmine di quella simbiosi tra America e Cina avvenne nel 2001 con l’ingresso della Repubblica Popolare nell’Organizzazione mondiale del commercio. Il 2008 segnò l’inizio di un ciclo nuovo. La grande crisi finanziaria originata prevalentemente dagli Stati Uniti, convinse la dirigenza cinese che il capitalismo americano era malato. La corrente filo-occidentale o «mercatista» dentro il Partito comunista venne progressivamente emarginata. Tornò in auge lo statalismo.
Questa evoluzione fu rafforzata dal 2012 in poi con l’avvento al potere di Xi Jinping. Sotto la sua guida la Cina ha abbandonato la cautela, non «dissimula» la propria forza con il linguaggio modesto di Deng, anzi proclama senza imbarazzi la superiorità del proprio modello. La nuova politica estera cinese, incarnata anche dalla generazione dei diplomatici chiamati «Guerrieri lupo», è molto più aggressiva. Ne hanno fatto le spese per primi i Paesi vicini, dal Giappone alla Filippine al Vietnam, che hanno visto la Cina mostrare sempre più spesso i suoi muscoli militari nelle contese territoriali. La scelta di appoggiare Putin nell’invasione dell’Ucraina è coerente con questo nuovo posizionamento di Pechino, ostile all’Occidente e deciso a contrastarne l’influenza su tutto il pianeta.
Nelle ultime settimane, prima e durante il vertice di Mosca, Xi ha promosso tre iniziative che vanno a completare le Nuove Vie della Seta (ufficialmente Belt and Road Initiative). Si chiamano Global Development Initiative, Global Security Initiative, Global Civilization Initiative. La prima ingloba i grandi investimenti per infrastrutture già in corso in Asia, Africa, America latina. La seconda rappresenta l’embrione di una «NATO sino-centrica», cioè prefigura alleanze di tipo militare. La terza guarda alla versante politico e valoriale. In questo modo Xi presenta la Cina come un’alternativa a 360 gradi degli Stati Uniti. A tutte le Nazioni che non gradiscono l’egemonia americana, questa Cina si propone come un partner a tutto campo, con cui si possono fare affari, si può gestire la sicurezza, si può ottenere rispetto. «Nel promuovere la modernizzazione – ha detto Xi – la Cina non percorre la vecchia strada del colonialismo e del saccheggio, né il percorso malvagio di quei Paesi che cercano l’egemonia con la forza. Noi non imponiamo i nostri valori né il nostro modello». È un linguaggio familiare, quello dell’anti-colonialismo e dell’anti-imperialismo. In questo senso si riallaccia all’epoca di Mao, quando la Cina si presentava come una Nazione sorella di tutte le altre Nazioni sottosviluppate, un’alleata del Grande Sud globale.
Oggi naturalmente quel linguaggio è carico di ambiguità e ipocrisie. La Cina ha smesso da tempo di essere una Nazione povera. Nel Grande Sud globale penetra come una banchiera che fa credito a condizioni esose e poco trasparenti; come una latifondista che accaparra terreni coltivabili; come una sfruttatrice di risorse minerarie ed energetiche. Anche sotto il profilo storico l’anti-colonialismo è contestabile visto che la Repubblica Popolare è tuttora un impero coloniale, un terzo del suo territorio sono Nazioni straniere conquistate e soggiogate (Tibet, Xinjiang, Mongolia Interiore). Però il linguaggio di Xi ha successo in molte aree del mondo, dove soprattutto le classi dirigenti e le élite intellettuali vedono un solo imperialismo, quello bianco, europeo o americano. È a questa sfida per l’egemonia globale che Xi alludeva a Mosca, quando ha dichiarato che il mondo «sta andando verso cambiamenti mai visti nell’ultimo secolo». È una frase che lui ha ripetuto spesso alle grandi assise del partito comunista. Evoca l’inizio di un secolo cinese, in cui Pechino costruirà le basi per un ordine globale alternativo a quello americano-centrico.
La politica estera di Xi sta bruciando le tappe in questa direzione. Alla vigilia del suo viaggio a Mosca, la diplomazia cinese aveva messo a segno un successo importante e altamente simbolico. Grazie alla mediazione di Xi, l’Arabia saudita e l’Iran hanno deciso di ristabilire le relazioni diplomatiche bilaterali, interrotte da sette anni. È la prima volta che la Repubblica Popolare «firma» un risultato diplomatico così visibile, e a grande distanza da casa propria: facendo irruzione in un’area dove i grandi attori geopolitici erano gli Stati Uniti e la Russia. A dimostrazione che l’espansionismo cinese fa concorrenza non solo all’influenza americana, ma anche a quella russa, la diplomazia di Putin ha voluto reagire rapidamente mediando a sua volta il disgelo tra Arabia saudita e Siria. Un altro Paese dove la Cina sta rafforzando il proprio ruolo è l’Afghanistan, dove vuole trarre vantaggio dalla precipitosa e umiliante partenza degli americani. Più vicino al cortile di casa propria, Xi Jinping è stato esortato dai ribelli birmani a svolgere un ruolo da mediatore nella guerra civile che insanguina Myanmar. Infine Pechino ambisce a fare da paciere nel Corno d’Africa. In questo attivismo nuovo della Cina sulla scena globale, aver catturato la Russia come un «junior partner», un socio in stato di evidente inferiorità, è un pezzo del disegno più vasto.