Putin contro se stesso

L’assenza di avversari temibili, come Alexey Navalny, la cui candidatura è stata bloccata, il 18 marzo il presidente russo diventerà presidente per la quarta volta
/ 08.01.2018
di Anna Zafesova

L’evento politico principale del 2018 in Russia avverrà il 18 marzo: nel quarto anniversario dell’annessione della Crimea Vladimir Putin diventerà presidente per la quarta volta. Sul fatto che il leader del Cremlino, al potere ormai da 19 anni (con una breve interruzione in cui è stato un superpremier, dal 2008 al 2012), vincerà le elezioni presidenziali, non ci sono molti dubbi. L’interrogativo principale, alla vigilia di Natale, era semmai come sarebbe arrivato a questa vittoria: come un trionfatore che ribadisce il suo dominio totale di un Paese del quale non è solo capo di Stato, ma anche il motore e il protagonista quasi esclusivo della vita pubblica, o come un moderato che vuole mostrare al mondo e ai propri concittadini di essersi guadagnato il quarto mandato in una lotta concorrenziale e aperta, in previsione di una transizione del potere nel 2024.

Il Cremlino ha optato per la prima ipotesi. Al voto del 18 marzo Putin verrà sfidato da Vladimir Zhirinovsky, l’ultranazionalista che dal 1991 immancabilmente funge da parafulmine che dirotta il voto di protesta, da Xenia Sobchak, la «Paris Hilton» russa che rappresenterà l’opposizione liberale sfidando ancora prima che il governo la propria reputazione di star televisiva glamour, dal candidato del Partito comunista Vladimir Grudinin – che ancora prima dell’inizio della campagna elettorale ha dato un colpo alle proprie chance andando a festeggiare il Capodanno in una stazione sciistica tedesca – e da qualche comparsa politica ancora da definire. Il clima e le attese per le elezioni sono stati riassunti al meglio dai presidenti delle due camere del parlamento russo: la responsabile del Senato Valentina Matvienko ha ringraziato Putin per essersi candidato, e lo speaker della Duma Viacheslav Volodin ha aggiunto: «Con la sua candidatura lei ha regalato al Paese non solo una speranza, ma un futuro».

La candidatura del principale avversario di Putin, Alexey Navalny, è stata bloccata dalla Commissione elettorale centrale, la cui presidente Ella Pamfilova ha fatto al blogger anticorruzione la ramanzina per «voler rincretinire i nostri giovani». Pochi giorni prima, alla tradizionale conferenza stampa di fine anno, il presidente russo aveva già preannunciato questa decisione: a una domanda sulla candidatura di Navalny ha risposto che «coloro che sono stati menzionati» (non chiama mai l’avversario per nome) non hanno un programma vero, che «la maggioranza del popolo non li vuole, noi non li vogliamo». Un mezzo lapsus che ha deluso coloro che credevano che l’ala moderata del Cremlino avrebbe ammesso Navalny alla campagna elettorale, per mostrare ai russi e soprattutto all’opinione pubblica internazionale – Washington e Bruxelles hanno già criticato la decisione di eliminare il leader dell’opposizione dalla corsa elettorale – che Putin non ha paura di nessuno, e il suo quarto mandato alla guida della Russia è meritato e legittimo.

Una soluzione che aveva auspicato anche la stessa Pamfilova, dicendo a Navalny «noi siamo i primi a volere vederla competere, per attestare il suo peso reale». Il Cremlino però ha optato per la linea dura, interpretata da molti come sintomo di insicurezza. Navalny è senz’altro il concorrente più temibile incontrato da Putin in ormai 19 anni al potere: ha una estesa ed efficiente rete di seguaci, è l’unico a riuscire a portare in piazza migliaia di russi, soprattutto i giovani considerati fino ad ora i putiniani per eccellenza, è carismatico, usa magistralmente i nuovi media, ha un immagine di eroe anti-burocrazia e gode di appoggi in Occidente. Alle elezioni del sindaco di Mosca ha preso il 27%, un assaggio del suo potenziale, e il suo film-inchiesta sulla corruzione del premier Dmitry Medvedev ha ottenuto 20 milioni di visualizzazioni in Rete in tre mesi.

Secondo i parametri di una democrazia occidentale, la vittoria su un candidato del genere avrebbe più valore di quella su concorrenti di facciata. È però la stessa logica del sistema russo a renderlo impossibile. Il presidente in carica in Russia non partecipa mai ai dibattiti elettorali, sottolineando che non è al livello degli altri. Durante le proteste di piazza del 2011, che fecero emergere Navalny come volto principale dell’opposizione, il dibattito nel governo non era sulle richieste dei manifestanti, ma sull’eventualità di un loro incontro con Putin, che non venne mai concesso. Una tradizione politica plurisecolare vuole che il leader sia detentore di un potere assoluto, e il classico elettorato putiniano – burocrati, militari, anziani, operai, religiosi, abitanti dei centri rurali – desidera più uno zar che un primus inter pares. Se il numero uno accetta di farsi contestare mostra di essere un debole. Il suo elettorato è il primo a non volerlo vedere criticato o costretto a rispondere a domande imbarazzanti in un dibattito televisivo, per l’apparato statale sarebbe poi un segnale d’allarme. Il potere in Russia o è monolitico, o non è. In questa ottica, l’esclusione di Navalny era scontata. Le prevedibili critiche delle cancellerie internazionali finiranno nel cassetto già stracolmo di proteste occidentali, per la Cecenia, per la Siria, per l’Ucraina, per la legge anti-gay e la libertà di stampa.

Ora gli elettori russi non allineati con il Cremlino hanno due mesi per decidere se votare Xenia Sobchak, un eventuale altro candidato, scheda bianca, o aderire alla proposta di Navalny di boicottare le elezioni. Gli 84 uffici elettorali del blogger, sparsi per tutta la Russia, si sono già riconvertiti in «uffici del boicottaggio». I sociologi però sono scettici sul risultato della campagna. Il rischio infatti è quello di convincere a non presentarsi ai seggi i pochi liberali, abbassando di qualche punto l’affluenza al voto ma alzando drasticamente la percentuale di Putin. La minoranza d’opposizione in questo modo si autoescluderebbe dal dibattito politico, producendo con le sue mani un risultato gradito al governo. Per colpire l’avversario Navalny dovrebbe convincere a disertare i seggi i potenziali sostenitori di Putin, oppure quelli del comunista Grudinin, che secondo alcune indiscrezioni sui primi sondaggi potrebbe ambire addirittura al 30% dei voti, attirando il voto di protesta non liberale.

Che Navalny possa muovere i voti lo si è già visto al voto per la Duma del 2011, dove Russia Unita, definito dal blogger in una campagna diventata virale «partito dei ladri e dei cialtroni», scese al minimo storico. Ma la vera minaccia per Putin a questo punto è lui stesso. Il suo problema infatti non è vincere, ma vincere con una percentuale schiacciante, per governare fino al 2024, un quarto di secolo. In Russia negli ultimi anni perfino i governatori regionali si fanno eleggere con il 90-95%. Indiscrezioni dei giornali moscoviti parlano di un obiettivo dell’amministrazione di Putin fissato al 70% dei voti con il 70% dell’affluenza, un dato superiore a tutti gli scrutini precedenti, il cui esito scontato ha fatto passare a molti elettori la voglia di spingersi fino al seggio. Nel 2000 Putin ha vinto con il 53%, nel 2004 con il 72%, nel 2012 con «solo» il 64% e proteste in piazza. Dopo, c’è stata l’annessione della Crimea, e la popolarità di Putin è salita al vertiginoso 86%.

La lotta elettorale quindi non sarà tanto tra i vari candidati, ma una battaglia all’ultimo voto in cui, in assenza di un concorrente vero, il presidente dovrà correre in realtà contro se stesso. Dall’entusiasmo della Crimea però sono trascorsi quattro anni, che hanno visto la recessione dell’economia e il calo del prezzo del petrolio, le sanzioni e le controsanzioni, i tagli della spesa pubblica, lo scontro della Russia con l’Occidente e 20 milioni di russi sotto la soglia della povertà, un dato rivelato poco prima della fine dell’anno dal ministero del Lavoro. Il Putin-2018 non può promettere più del Putin-2012, che allora impose un fardello già molto pesante alle casse dello Stato. Per quasi 19 anni di protagonismo monopolista la ricetta Putin ha sempre funzionato, e proprio per questo replicarla diventa sempre più difficile. Un leader indiscusso ha bisogno di un plebiscito. E se non riesce a ottenerlo, ora non potrà incolpare il populismo di Navalny.