Romano Prodi coltiva le proprie antipatie in silenzio, le rumina, le assapora per poi esporle come risultato di una logica consequenzialità. Beppe Grillo, invece, le erutta fra lapilli dileggianti e cenere abrasiva. Appartengono a faune diverse, non si capiscono, non si stimano, mai muoverebbero un passo verso l’altro. L’uno è convinto d’incarnare la possibilità di un’Italia diversa e migliore; l’altro si accontenta di sognare l’Italia che mai ci sarà. Eppure alla fine del secolo scorso, prima di virare i propri spettacoli sul versante economico, Grillo andò a casa di Prodi per farsi spiegare tematiche e orientamenti in materia. Ma nel 2006, dopo aver incontrato Prodi presidente del consiglio per consegnargli le richieste del nascente Movimento su energia, salute, informazione e l’immancabile economia, Grillo scrisse di aver trovato Prodi in stato catatonico, di aver chiesto se stesse dormendo e gli fu risposto che stava riflettendo. Forse, per dargli una scossa, al momento del congedo gli dette una raccomandata: conteneva la lettera di licenziamento nel caso Prodi non avesse tenuto nella giusta considerazione le richieste della base pentastellata. Prodi all’apparenza ha incassato senza replicare. Tuttavia l’anno scorso, nello spiegare che una legge elettorale anti Grillo avrebbe soltanto fatto il suo gioco, il dotto «mortadella» – per un emiliano è un complimento – ha affermato che il M5S non aveva alcun programma e che il suo unico scopo fosse quello di demolire, senz’alcuna preoccupazione di quanto sarebbe accaduto in seguito.
Per le elezioni del 4 marzo hanno entrambi scelto il ruolo di santone, di profeta, di oracolo, che nella nostra disincantata realtà rischia, però, di trasformarsi in quello di paraguru. Prodi spinge per un centrosinistra allargato e così ha avuto la possibilità di regolare i conti con D’Alema, cui non perdona di averlo spodestato da Palazzo Chigi nel 1998 con una congiuretta da palazzo e di aver guidato i 101 «traditori» del Pd, che nel segreto dell’urna boicottarono la sua candidatura alla presidenza della Repubblica nel 2013. Prodi ovviamente non ha creduto alle professioni di amicizia del gelido nemico, anzi gli ha rivolto la peggiore delle accuse, che si può rivolgere al un ex comunista togliattiano: frazionista, cioè colui che cospira per spezzare l’unità della sinistra. Né più né meno il ruolo che rivestono gli aderenti a Liberi e Uguali, ai quali non importa vincere, bensì far schiattare Renzi, non a caso lodato da Prodi.
Grillo ha scelto un singolare ritiro dalle scene. Ha staccato il proprio blog da quello ufficiale dei 5 stelle, finora non ha speso una sola parola in sostegno della loro campagna elettorale, a parte una pleonastica dichiarazione di vicinanza, ha fatto trapelare la propria insofferenza nei confronti di Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto, e sotto sotto anche nei confronti di Di Maio, il patricida. Per un quindicennio Grillo è stato un moderato, che si è divertito con l’anarchia. Ha dato voce ai mille malumori del Paese; ne ha interpretato il rancore e la voglia di ritorsione; ha invocato l’irruzione dei dilettanti allo sbaraglio nella politica, che è la più elitaria delle professioni; ha guidato una protesta che coltivava il sogno impossibile di cambiare il Paese senza doverlo governare. Grillo temeva, infatti, che all’esame della quotidianità i suoi osannanti accoliti avrebbero pagato tutti i prezzi possibili all’inesperienza e all’impreparazione come sta avvenendo a Roma, a Torino, a Livorno e non avviene a Parma per la svolta pragmatica del sindaco Pizzarotti. Ma Grillo non aveva fatto i conti con la ribollente ambizione di Casaleggio jr, capace d’impossessarsi del Movimento, di controllarlo attraverso la piattaforma Rousseau e di avere nel velleitario Di Maio un perfetto ventriloquo. L’arrivederci o addio di Grillo non sembra avere angustiato più di tanto i vecchi compagni di viaggio. Anzi, danno la sensazione di essersi liberati di un peso.
In vista del prevedibile stallo post elettorale, nessuna coalizione è accreditata della maggioranza dei seggi, il nome di Prodi ricorre quale leader di un «governo del Presidente», nel senso di Mattarella, per affrontare l’ordinaria amministrazione. Un’ipotesi rinforzata dallo scenario di fantapolitica venuto a galla nei giorni scorsi: esser Prodi la carta segreta del M5S, che lo indicherebbe per sparigliare tutti i giochi, soprattutto a sinistra. D’altronde, il quasi ottantenne professore era risultato secondo, dietro l’ex magistrato Imposimato, nelle «quirinarie» del 2013 lanciate da Grillo per stabilire il candidato alla carica presidenziale. L’alternativa sarebbe rappresentata dai nemici di Renzi, pronti a invocare Prodi quale traghettatore di un Pd da rifondare: tuttavia, anche se il pifferaio non più magico andasse sotto il 25%, appare assai difficile scalzarlo nel breve termine. E l’età di Prodi incalza.
Grillo ha avviato la sua nuova tournée teatrale senza il tutto esaurito delle stagioni felici e senza l’ossequio degli appartenenti al M5S, una volta decisi a uccidere pur di apparire al suo fianco. Lo descrivono a un passo dalla plateale scomunica nei confronti di Casaleggio jr e Di Maio, cui seguirebbe la creazione di un altro movimento da affidare a Di Battista, che ha rifiutato la candidatura, occupa le retrovie e non sfida più il congiuntivo. Sarebbe il rinnegamento più clamoroso in un’esistenza già segnata da diversi abbandoni, mai però così lacerante. A meno che Grillo non lo valuti il modo migliore per uscir fuori da un involucro, che ormai gli andava stretto.