Il Brasile è appeso all’attesa di una sentenza del tribunale di Porto Alegre Nella città simbolo dello Stato di Rio grande do sur, il 24 gennaio si celebra il processo d’appello all’ex presidente della repubblica Lula Da Silva, condannato in primo grado a nove anni e sei mesi di carcere per corruzione e per riciclaggio dalla procura di Curitiba guidata dal giudice di prima istanza Sergio Moro.
La tensione politica è alle stelle. L’intera campagna elettorale per le presidenziali dell’ottobre del 2018 è ferma aspettando l’esito del processo. L’ex presidente, fondatore del Partito dei lavoratori, è da mesi, secondo tutti i sondaggi, il favorito alle elezioni. Se l’appello confermasse la sentenza di primo grado, scatterebbe per lui la revoca del diritto all’elettorato passivo. Candidatura stracciata.
Porto Alegre potrebbe anche rilanciare Lula. Niente fa escludere infatti una assoluzione piena. Il Tribunale d’appello di Porto Alegre è quello che passa in rassegna le sentenze della procura di Curitiba, emesse dal giudice Moro. Finora Porto Alegre ha bocciato il 54% delle sentenze di Moro nell’inchiesta Lava Jato, la Mani pulite locale che sta processando per corruzione buona parte dell’establishment brasiliano. Un ribaltamento della sentenza di Moro a ridosso delle elezioni porterebbe probabilmente Lula in volata alla rielezione.
Se la sentenza d’appello confermasse invece il giudizio pronunciato da Moro, potrebbe scattare l’arresto per Lula. Ma solo se l’eventuale giudizio di condanna fosse unanime. Il Superiore tribunale di giustizia ha infatti fatto sapere che soltanto se i tre giudici del secondo grado confermassero il giudizio di condanna all’unanimità potrebbe scattare l’arresto. In caso ci fosse anche un solo voto contrario, l’appello non potrebbe essere considerato concluso, quindi Lula non potrebbe essere arrestato.
Non è questione giudiziaria, ma squisitamente politica. Gli avvocati di Lula dicono in privato di aspettarsi una condanna, ma non unanime. Se il voto di Porto Alegre fosse di condanna per due giudici contro uno, Lula riuscirebbe a candidarsi lo stesso perché potrebbe presentare più di un ricorso e rimandare così l’eventuale condanna definitiva. La condanna in secondo grado, ma con i giudici non unanimi nel deciderla, presenta uno scenario complesso che non scioglierebbe i nodi per la candidatura alle presidenziali né dentro il Partito dei lavoratori (Pt), dove non pochi ammettono a mezza bocca di considerare Lula «ficha suja», un cavallo azzoppato, né dentro l’opposizione.
Il Psdb, lo storico partito avversario del Pt, non osa infatti schierare con certezza un candidato, per adesso. Perché un conto è rivaleggiare con un qualsiasi candidato del Pt. Altro conto è contrapporsi a Lula, uscito dal secondo mandato presidenziale consecutivo con l’80 per centro di consenso popolare. Finché non si risolve il processo, l’opposizione resta senza candidato che non sia di facciata.
A prendere le parti di Lula per mettere a tacere prima ancora che spuntino le voci a lui contrarie, è stata la sua successora Dilma Rousseff. Nella riunione della direzione nazionale del partito a San Paolo, la Rousseff ha detto: «La partita è tutta puntata a buttar fuori Lula dalla disputa elettorale. Non dobbiamo far passare come ovvio il fatto che si stia usando questa nuova arma legale. Dobbiamo discutere tanto la condanna giudiziaria quanto quella politica. Si tratta di una ingiustizia clamorosa. Di una persecuzione politica». Lula pare deciso a giocarsi il tutto per tutto: sarà a Porto Alegre ad attendere la sentenza. Arriverà due giorni prima che il tribunale si riunisca. In città sono state organizzate mobilitazioni dei suoi sostenitori. La sua difesa ha chiesto ai giudici di ascoltare l’ex presidente prima di pronunciarsi.
La condanna che dovrà esaminare il tribunale di Porto Alegre nasce dai lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo. Quella ristrutturazione, secondo il giudice Moro, nasconderebbe il pagamento di una tangente di 3,7 milioni di reais brasiliani, circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni, La Oas, beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato perfettamente a conoscenza.
La difesa dell’ex presidente contesta, tra moltissimi rilievi, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula in alcun modo visto che non esiste un documento di proprietà, un atto di compravendita, nulla. Moro risponde che «nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni» sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno.