Angela Merkel ha fatto «un grosso errore» sui profughi, la sua politica di accoglienza è stata un disastro, parola di Donald Trump. Detto anche «Quarantacinque»: il 45esimo presidente degli Stati Uniti, da venerdì 20 gennaio. È proprio l’afflusso incontrollato di stranieri, la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’Unione europea, la causa ultima di Brexit. Trump si guarderà bene dall’imitare un simile disastro. Non è un caso se la bordata di accuse che Trump ha lanciato contro l’Europa, si concentri sull’immigrazione. Da lì ebbe inizio la fortuna politica del nuovo presidente degli Stati Uniti: quando nell’estate 2015 nessuno lo prendeva sul serio come candidato alla nomination, e l’establishment repubblicano era sicuro che il fenomeno Trump si sarebbe sgonfiato presto, nei suoi comizi i boati più entusiasti si levavano quando lui pronunciava la magica parola, The Wall, il Muro con il Messico. Immigrazione e insicurezza, i due temi per lui sono sempre incollati. «Il Messico ci manda qui i suoi peggiori soggetti, traficcanti e stupratori». Per lui «clandestino uguale criminale».
E poi, nelle due stragi terroristiche avvenute in piena campagna elettorale – San Bernardino in California, Orlando in Florida – lui fu implacabile: «I terroristi si rivendicano islamici, perché Barack Obama e Hillary Clinton rifiutano di usare questa etichetta?» Lui non farà l’errore della Merkel sfociato nel Capodanno di Colonia 2016 (le aggressioni alle donne da parte di immigrati). Stop all’accoglienza di profughi dalla Siria. E non solo dalla Siria. Il neopresidente torna a ventilare un extreme vetting cioè filtri e controlli severi, accurati, su chiunque voglia entrare negli Stati Uniti in provenienza da paesi islamici, o anche da altre zone del mondo colpite dal terrorismo islamico. In quest’ultima categoria, stando alle cronache degli ultimi attentati, rientrano facilmente Germania Francia e Belgio. Di qui l’ipotesi di «restrizioni» anche per quei visitatori che godono di un regime facilitato, come il visto online Esta per i turisti dall’Europa.
La svolta più grossa riguarda comunque gli immigrati dal Messico, e quelli che attraversano il confine messicano provenendo da altri paesi del Centramerica o Sud America. Trump aveva promesso: «Al primo giorno, alla prima ora in cui sarò al potere, quella gente la caccio». Quanta gente? Fece un numero preciso in agosto, durante un comizio a Phoenix in Arizona: tre milioni di clandestini saranno deportati subito, disse. Rastrellare tre milioni di persone ed espellerli in tempi rapidi è un’operazione militar-poliziesca (e logistica) di dimensioni immani in tempo di pace. Pochi credono che sia fattibile. Più modestamente quello che lui può fare è revocare il Deferred Action for Childhood Arrivals Program, un decreto del 2012 con cui Obama salvò dalla minaccia di espulsione gli immigrati senza permesso di soggiorno che sono arrivati qui da bambini. Si tratta di centinaia di migliaia di casi, non pochi, ma ben altra cosa dai milioni di cui parlava nei comizi.
Poi c’è il mitico Muro. Di recente anche un ispiratore di Trump, l’esperto di destra Mark Krikorian che dirige il Center for Immigration Studies, ha cominciato a dire che il Muro è «una metafora, non una priorità operativa». E tuttavia qualche gesto simbolico andrà fatto. Va ricordato che un pezzo di Muro esiste già, lo fece costruire Bill Clinton al confine fra San Diego e Tijuana. Basterebbe aprire un cantiere per prolungarlo di qualche miglio e la capacità di comunicazione di Trump farà il resto… Salvo quell’altra promessa spinosa, di far pagare il conto allo stesso governo messicano.
Le resistenze che incontrerà Trump su questi fronti sono molteplici. Si sono moltiplicate le manifestazioni di protesta contro le sue promesse anti-immigrati. Si rafforza il movimento delle città-santuario, sono ormai trenta, da New York a San Francisco, le amministrazioni locali che garantiscono accoglienza e sicurezza ai clandestini. Le polizie locali obbediscono ai sindaci, se questi boicottano Trump le forze federali sono insufficienti per individuare e arrestare i clandestini. Forse per questo i ministri-chiave che dovrebbero occuparsene sono stati cauti nelle audizioni al Senato per la loro conferma. Spicca il generale John Kelly designato alla guida del superministero degli Interni, la Homeland Security, con questa battuta sul Muro: «Come militare capisco qualcosa delle strutture di difesa. Una barriera fisica non è la soluzione». E il suo collega Jeff Sessions che dovrebbe dirigere la Giustizia: «Non sostengo l’idea di negare l’accesso agli Stati Uniti ai musulmani in quanto fedeli di una religione». Per forza, è incostituzionale.
Dopo l’immigrazione, la sanità è l’altro grande terreno su cui Trump ha preso un impegno preciso con la sua base: smontare Obamacare. Il suo predecessore lo ha avvertito: non sarà facile né indolore. «Abbiamo realizzato – ha detto Barack Obama poco prima di andarsene – ciò che nessun politico e nessun partito riuscì a fare per un secolo: 20 milioni di americani che non avevano assistenza sanitaria ora ce l’hanno; sono finite le discriminazioni contro i malati. «Abrogare la mia riforma senza varare un sistema che la sostituisca, è irresponsabile, folle».
La maggioranza degli americani gli dà ragione: solo il 20% è d’accordo per l’eliminazione pura e semplice del sistema in vigore dal 2010. Lo stesso presidente uscente, in un bilancio sulla rivista scientifica «New England Journal of Medicine», riconosce i problemi: «La mancanza di alternative sufficienti in alcuni Stati; le tariffe assicurative ancora inaccessibili per certe famiglie; i medicinali troppo cari». Non è poco, come elenco di difetti della sua riforma. Quella che lui considera la sua eredità più importante, per alcuni suoi sostenitori fu invece un errore. Spese il capitale di consenso iniziale per una riforma impossibile, accelerò i tempi della rivincita repubblicana, perdendo le elezioni legislative fin dal novembre 2010. La nascita a destra del Tea Party, il vasto movimento di protesta che preparò il terreno a Trump, ebbe fra le cause iniziali Obamacare. Quella degli Stati Uniti rimane una sanità prevalentemente privata, dalle assicurazioni agli ospedali. Fanno eccezione due sistemi: Medicare fornisce assistenza a carico dello Stato a 50 milioni di anziani sopra i 65 anni di età (ma usando assicurazioni private come erogatrici di prestazioni); Medicaid dà cure mediche pubbliche ai cittadini più poveri.
Cosa è cambiato, e cosa no, con la riforma di Obama? Avere un’assicurazione è diventato obbligatorio. Questo ha creato un onere per le piccole imprese che non includevano la polizza sanitaria nel pacchetto retributivo; oppure per i singoli cittadini che siano lavoratori autonomi, liberi professionisti, freelance, precari. Questi ultimi ricevono sussidi pubblici se il loro reddito è basso. Obamacare ha vietato alle assicurazioni una consuetudine diffusa quanto odiosa: il rifiuto di vendere polizze a chi era già stato ammalato. Infine si è allungata l’età in cui si possono tenere i figli a carico della polizza familiare. I miglioramenti sono reali, anche se i costi sono in parte scaricati sui cittadini o sulle imprese.
Non è cambiato il difetto più grave del sistema: i costi fuori controllo. Il vizio d’origine non venne affrontato con l’istituzione del Medicare nel 1966 sotto la presidenza di Lyndon Johnson. Già allora la lobby di Big Pharma era così potente che lo Stato si privò del suo potere maggiore: contrattare i costi dei medicinali con le case farmaceutiche. Lo stesso difetto è rimasto con Obamacare. Non c’è nella legge un’arma contro i comportamenti predatori dell’industria farmaceutica, al punto che gli stessi medicinali made in Usa talvolta costano meno in Europa. Le autorità pubbliche degli Stati Uniti non hanno potere su nessuno degli attori privati: né Big Pharma né le assicurazioni, né la classe medica né gli ospedali privati. Il sistema si avvita in un’iperinflazione, le tariffe assicurative 2016 in media sono salite del 25%.
L’Organizzazione mondiale della sanità denuncia l’inefficienza degli Stati Uniti: in percentuale sul Pil spendono quasi il doppio dei paesi europei e del Giappone, eppure gli indicatori di salute della popolazione sono peggiori. Unici a non accorgersene sono i dipendenti delle grandi aziende, che hanno buone polizze incluse in busta paga: però le pagano senza saperlo, di fatto con un prelievo dal salario lordo. La battaglia dei repubblicani è ideologica; da sei anni promettono di smantellare Obamacare, è un punto d’onore. Trump li ha assecondati in campagna elettorale. Ora dovrà evitare che il Congresso gli consegni un’altra riforma maledetta, una bomba a orologeria destinata a creare nuove storture, iniquità, malcontento. Di toccare i grandi privilegi, i veri predatori della sanità americana, Trump ha fatto cenno: ha promesso che con lui certi rincari dei medicinali saranno impossibili. Prima di lui provò Hillary Clinton quando era solo First Lady, nel lontano 1993. La sua prima, memorabile disfatta.