Prima il metallo americano

Trump introduce dazi gravosi all’importazione di acciaio e alluminio, una tutela per l’industria nazionale ma con un occhio di riguardo alla Cina
/ 12.03.2018
di Federico Rampini

Donald Trump ha varcato la nuova tappa della sua offensiva protezionista. I settori da difendere stavolta sono l’acciaio e l’alluminio, il presidente infligge sulle importazioni dall’estero un dazio doganale del 25% per il primo, del 10% per il secondo. Sceglie di usare l’articolo di legge 232 che si riferisce appunto alla sicurezza nazionale. La giustificazione: quei due metalli vengono usati in molte produzioni di armamenti (aerei militari, navi da guerra, carriarmati e missili), l’America sarebbe vicina a perdere l’autosufficienza, Trump non vuole trovarsi in una situazione in cui la produzione di materiale bellico verrebbe a dipendere da importazioni straniere. Canada e Messico saranno inizialmente esentati da questi dazi pur essendo ambedue grossi esportatori di acciaio negli Usa. La motivazione: quei paesi sono «amici e alleati», ma soprattutto è in corso con loro il negoziato per la revisione del trattato Nafta che regola il mercato unico nordamericano. Dunque Trump vuole usare la minaccia dei dazi come strumento di pressione a quel tavolo negoziale. Almeno per adesso, i produttori canadesi e messicani di acciaio e alluminio sono esentati dalla tassa doganale.

Per quanto riguarda l’Europa, anche qui c’è un’offerta di flessibilità da parte della Casa Bianca, ma più vaga e problematica. Di nuovo entra in ballo la sicurezza nazionale. Quei paesi con cui ci sono alleanze (è il caso della Nato) vengono invitati a offrire a Washington delle opzioni alternative ai dazi, fermo restando che va tutelata la produzione nazionale, l’occupazione, l’autosufficienza a fini di difesa. Non è chiaro se la Casa Bianca voglia invitare ogni singolo governo europeo ad aprire un tavolo di negoziato bilaterale. Sarebbe impossibile visto che per gli Stati membri dell’Unione europea i negoziati commerciali sono di competenza di Bruxelles.

Sul protezionismo c’era stata una profonda spaccatura in seno al partito del presidente. Tra i segnali, la rivolta interna di 100 parlamentari repubblicani, e la dimissione del capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, l’ex presidente di Goldman Sachs Gary Cohn. La Cina paradossalmente non è tra i paesi più colpiti dalle ultime misure perché gran parte del suo export di metalli va verso altre destinazioni, asiatiche ed europee. Era stata comunque il primo bersaglio, quando a gennaio Trump varò dazi sui pannelli solari made in China. Trump ha detto che dalla Cina vuole un piano di riduzione del deficit bilaterale che elimini 100 miliardi all’anno.

È dunque l’Europa in prima linea nel subire l’offensiva protezionista di Donald Trump. Per imporre i dazi lui fa ricorso a una legge che risale alla guerra fredda (1962) e cita un presidente di fine Ottocento (McKinley): dando l’impressione di una visione datata dell’economia. Questi dazi nell’immediato colpiscono poco la Cina che è il vero rivale economico planetario. Proteggono industrie molto «mature», non all’avanguardia. Perfino per quanto riguarda la sicurezza nazionale, la sfida cinese è più inquietante in settori come informatica, elettronica, intelligenza artificiale.

La sua offensiva colpisce in pieno gli alleati europei, i più danneggiati da subito. Agli europei Trump manda a dire: «Valuteremo chi di loro paga il conto per le spese della difesa, e chi no». L’allusione rinvia a un’altra diatriba, sull’insufficiente contributo di molti paesi europei al bilancio della Nato. Trump sembra mettere tutto insieme sul tavolo del negoziato, fa balenare la possibilità di concedere «flessibilità» a chi fa maggiori sforzi economici in sede Nato.

«Non volete pagare questi dazi? Venite a produrre acciaio e alluminio qui negli Stati Uniti». Donald Trump rende esplicito uno degli effetti che attende da questa offensiva: cambiare i calcoli di convenienza per le multinazionali, invertire la direzione di marcia delle delocalizzazioni. È coerente con altre misure economiche della sua Amministrazione: deregulation sulle imprese, taglio della tassa sui profitti, condono per il rimpatrio dei capitali. L’economia ha risposto bene finora. Riuscirà la scommessa anche stavolta? A differenza dei consensi che le sue riforme precedenti avevano suscitato nel mondo imprenditoriale, ora nel coro di reazioni prevalgono quelle contrarie. Il presidente ha scelto di difendere dalla concorrenza estera due settori – acciaio e alluminio – che sfornano prodotti intermedi o semi-lavorati, usati da altre industrie come l’automobile, gli elettrodomestici, perfino l’alimentare (le lattine di bevande). Questi ultimi sostengono che pagheranno più caro l’acciaio domestico e dovranno rivalersi sui consumatori alzando i prezzi. Poi c’è il timore delle ritorsioni, che sono una certezza per quanto riguarda l’Unione europea. I conti si faranno solo alla fine, quando sarà chiaro il bilancio tra dazi americani e contro-dazi applicati dagli altri sui prodotti made in Usa, però il top management delle multinazionali americani è convinto che rischia di perderci. Un segnale di quel che può accadere se l’America si «ritira» dalla globalizzazione, è avvenuto nell’area dell’Asia-Pacifico dove 11 paesi tradizionalmente alleati degli Stati Uniti stanno procedendo da soli a ratificare il trattato Tpp che era stato promosso da Obama ma che Trump rifiuta. Nelle reazioni all’offensiva dei dazi si nota una reticenza della sinistra politica e accademica. Per decenni è da sinistra che furono denunciati i danni della globalizzazione, da premi Nobel come Joseph Stiglitz a politici radicali come Bernie Sanders. Ormai è Trump ad avere impugnato la bandiera degli interessi della classe operaia.

Le polemiche dimissioni del capo dei consiglieri economici hanno ripercussioni serie. Non solo sulla tenuta dell’Amministrazione Usa ma anche sulla politica interna dei paesi europei. Compreso il futuro governo italiano quando si formerà. Stiamo assistendo a un cortocircuito tra populismi e protezionismi, che mette a dura prova i rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. Anche il dialogo tra forze ideologicamente affini diventa problematico. In campo economico infatti ci sono evidenti prossimità fra Trump e i due partiti vincitori delle elezioni italiane, M5S e Lega. Eppure le decisioni della Casa Bianca rischiano di mettere Stati Uniti e Italia in rotta di collisione, perché tra dazi e ritorsioni un pezzo di industria esportatrice italiana soffrirà.

Una premessa è d’obbligo. Non bisogna farsi trascinare nel catastrofismo. Sono esagerati i paragoni che circolano tra questa mini-guerra commerciale (almeno per ora) e la spirale dei protezionismi nella Grande Depressione degli anni Trenta. Inoltre non tutti i protezionismi sono dannosi e non tutte le ritorsioni di Trump sono infondate. La Cina pratica il suo protezionismo da molti anni, con estrema disinvoltura favorisce sistematicamente i suoi «campioni nazionali» a scapito dei nostri interessi. In parte lo fa calpestando le regole anche se proclama di rispettarle. In parte sono le regole stesse ad essere anacronistiche e asimmetriche perché furono stabilite vent’anni fa quando la Cina era poverissima e bisognava concederle condizioni favorevoli per partecipare al commercio internazionale. Quelle regole vanno riviste. Per costringere Xi Jinping ad accettare un nuovo paradigma della globalizzazione, bisogna esercitare delle pressioni. I dazi a questo possono servire. Qui però interviene un limite grave di tutti i populismi, di cui Trump è portatore al massimo livello: l’incompetenza. Lo si vede con gli ultimi dazi americani che colpiscono alla cieca, a 360 gradi, ma danneggiano poco la Cina.

Perciò quest’ultima mossa del presidente americano ha il potenziale di sfasciare sia le alleanze internazionali, sia le coalizioni populiste. Il secondo aspetto è quello più attuale dopo le dimissioni di Gary Cohn da capo dei consiglieri economici di Trump. Cohn, ex presidente della Goldman Sachs, se n’è andato dopo aver perso la sua battaglia contro i dazi. Si era fatto portavoce di un fronte molto ampio: la maggior parte delle multinazionali americane e Wall Street su questo terreno si dissociano dal nazionalpopulismo di Trump. Il protezionismo inserisce un cuneo dentro quella convergenza d’interessi – già precaria – che aveva unito la classe operaia e un pezzo di establishment capitalistico pro-Trump.

Qualcosa di simile si nota in Europa, per esempio con l’appello di Marchionne perché la UE eviti rappresaglie pesanti: anche le multinazionali europee (euro-americane nel caso Fca) non hanno interesse a destabilizzare l’architettura della globalizzazione. Potenzialmente l’Italia ha lo stesso dilemma: dei governi nazionalpopulisti possono essere tentati dalla linea Trump, che però li porterebbe a scontrarsi sia con il mondo delle imprese sia con gli Stati Uniti.

Lo stesso effetto divisivo e centrifugo avviene sulle alleanze tra nazioni. Trump anziché tentare di isolare il «nemico principale» (la Cina) e colpire quello, danneggia alleati storici come Europa e Canada. Si rivela incapace di assumere la leadership dei nuovi populismi, perché la sua politica ha un orizzonte tutto nazionale, è incapace di articolare una strategia delle alleanze.

È possibile che la scelta di trattare coi guanti di velluto Xi Jinping sia legata ad un altro colpo di scena di questi giorni: l’annuncio a sorpresa che nel mese di maggio Trump incontrerà il leader nordcoreano Kim Jong-un. Il presidente americano ha spesso elogiato la Cina per il suo ruolo di mediazione su quel fronte.