La strategia dell’America contro la minaccia nordcoreana è già cambiata da un pezzo, dicono nei corridoi del ministero della Difesa giapponese. Secondo i funzionari di Tokyo, Donald Trump vuole risolvere l’unica questione internazionale che nessun presidente finora è riuscito a risolvere: liberare la Corea del nord dal regime dei Kim. Il presidente americano – che sin dallo scorso novembre è riuscito a instaurare un forte rapporto di fiducia con il primo ministro nipponico Shinzo Abe – ha iniziato il suo viaggio asiatico proprio a Tokyo, e non per caso. A ogni test missilistico nordcoreano, fanno notare i giapponesi, Trump telefona al Kantei, il palazzo del governo di Abe, per consultarsi con il suo alleato nel Pacifico.
Perfino le sue parole su Twitter per descrivere il leader Kim Jong-un, apostrofato con aggettivi poco conformi allo stile diplomatico adottato finora dalla Casa Bianca, vanno nella direzione della massima pressione chiesta dal governo giapponese all’America. E se la tensione tra Corea del nord e resto del mondo sta aumentando, è anche perché ha vinto la strategia di Tokyo, quella che vuole il massimo della pressione possibile. «Non è il momento del dialogo», dicono in Giappone, e gli sforzi diplomatici di Shinzo Abe sono ora concentrati sulla moral suasion con Cina e Russia in nome di una «one voice strategy» contro Kim Jong-un e le sue mire nucleari. Anche Donald Trump ha detto più volte che senza l’aiuto della Cina, Pyongyang resterà il regime minaccioso di sempre. Ma non tutti credono che Pechino sia disposta a cambiare le cose.
«La pressione che vuole il Giappone non porterà a niente», spiega Yukio Okamoto, ex special advisor di due primi ministri giapponesi, presidente della Okamoto e associati e uno dei massimi esperti di diplomazia dell’Asia orientale. «E non porterà a niente perché non avrà il supporto cinese. Pechino trova il massimo beneficio dal mantenimento dello status quo in Corea del nord. Non gli importa nulla se abbia o meno le armi nucleari», e questo perché la parte settentrionale della penisola svolge il ruolo di cuscinetto tra gli interessi cinesi e quelli atlantisti, che si fermano sul trentottesimo parallelo. Da sempre la Cina porta avanti una sua personalissima strategia diplomatica con Pyongyang – anche quando sedeva al tavolo delle trattative con Russia, Corea del sud, Giappone e America. Una questione di business, certo (la Cina è il paese con più interscambio commerciale con la Corea del nord), ma anche di rapporti di forza.
In passato, Pechino ha sempre difeso la sua apertura nei confronti di Pyongyang come unica strategia per evitare la guerra. Era facile, visto che i funzionari cinesi potevano controllare facilmente Kim Jong-il. Ma dal 2012, cioè dall’inizio del regno di Kim Jong-un, qualcosa si è rotto. Il giovane leader nordcoreano ha dimostrato più volte di non riconoscere l’autorità cinese, e secondo varie fonti, tra cui l’ex ambasciatore americano in Cina, il presidente Xi Jinping tollera molto poco le intemperanze del ragazzino-tiranno di Pyongyang. C’è un fatto ad avvalorare l’ipotesi: sull’omicidio all’aeroporto di Kuala Lumpur del fratellastro Kim Jong-nam, per esempio, si fa sempre più realistica l’ipotesi di una reazione nordcoreana a un complotto di Pechino.
Visto che Kim Jong-un è fuori controllo, i funzionari cinesi avrebbero voluto sostituirlo con il loro protetto, Kim Jong-nam, che già da tempo abitava a Macao. A Pyongyang un regime change non potrebbe funzionare senza un collasso dell’intero Paese, che si tiene insieme grazie a una sorta di divinizzazione della dinastia dei Kim: Pechino lo sa, e sa che l’unico leader che potrebbe governare la Corea del nord dovrebbe avere quel cognome. Dopo l’efferato omicidio di Kim Jong-nam – gli agenti nordcoreani avrebbero usato un gas nervino – la sua famiglia è stata posta sotto protezione. In particolare i cinesi si sarebbero spesi molto per mettere in sicurezza il figlio, Kim Han-sol. Ventidue anni, millennial che ha studiato e viaggiato, Han-sol ha frequentato Sciences Po in Francia ed è famoso per aver criticato spesso il regime della sua famiglia attraverso i social network. Qualche giorno fa il quotidiano sudcoreano «Joongang Daily» ha scritto che le autorità cinesi sarebbero riuscite a sventare il suo assassinio, a Pechino, organizzato da alcuni agenti nordcoreani. «Non sarebbe così strano», spiega ancora Yukio Okamoto, «Kim Han-sol potrebbe essere la chiave della soluzione cinese ai problemi con la Corea del nord».
A livello diplomatico non si era mai arrivati a uno stallo simile. Sin dall’armistizio del 1953 che pose fine alla Guerra di Corea, il dialogo con Pyongyang è servito a poco – basti ricordare, dice Okamoto, che nel 2000 l’allora segretario di Stato Madeleine Albright venne ricevuta con i massimi onori a Pyongyang da Kim Jong-il, ma sei anni dopo, con il primo test nucleare, ogni promessa fatta in quell’occasione venne violata. Però l’alternativa è altrettanto scoraggiante: «Ogni volta che abbiamo fatto molta pressione non è successo nulla. Ora la situazione però è diversa: il prossimo anno la Corea del nord diventerà una potenza nucleare. Kim Jong-un avrà le armi per poter dire all’America e al mondo: possiamo attaccarvi. Non possiamo fare nulla, l’unica strategia possibile è quella della deterrenza. Vuol dire che il Giappone deve poter usare le sue armi». Ma la Costituzione giapponese, quella imposta dall’America nel Dopoguerra, impedisce a Tokyo di dotarsi di un esercito: «In realtà non servirebbe nemmeno una riforma costituzionale», dice Okamoto, «Il problema è esclusivamente politico. Dobbiamo poterci difendere». A meno che non sia un millennial cresciuto a Parigi e che fa Kim di cognome a risolvere la situazione.