Populismo: pericolo scampato?

Il mondo che verrà: 7. parte – Dopo l’America anche la Francia è un Paese dove la geografia ha fatto capolino alle urne. Ma è presto per dire se con l’elezione di Macron finisce anche la stagione dei populismi
/ 04.09.2017
di Federico Rampini

Dopo la Francia sarà la volta della Germania. Emmanuel Macron ha bloccato l’ascesa di Marine Le Pen e Angela Merkel sembra avviarsi verso la vittoria. L’establishment tira grandi sospiri di sollievo: pericolo scampato? Dunque è già finita la stagione dei populismi? Bisogna riflettere però sulle cause profonde che avevano generato gli shock elettorali precedenti. Dell’America ho scritto nella puntata precedente. Ora faccio un salto sull’altra sponda dell’Atlantico, da dove arrivarono i pellegrini puritani sulla nave Mayflower, tra i primi coloni inglesi nel Nuovo Mondo. Nel vecchio Regno Unito il 23 giugno 2016 la vocazione insulare torna a prevalere: vince Brexit ovvero Leave (partire), perde il partito del Remain (restare dentro l’Ue). Il referendum sull’uscita dall’Unione europea ha la più alta affluenza alle urne da vent’anni, ben 72%. Su 33 milioni di votanti la spaccatura è verticale, 17 milioni scelgono Leave (51,9%) mentre 16 milioni avrebbero voluto Remain (48,1%). Lo scarto non è enorme, tra le due tribù dei sovranisti e dei globalisti c’è un margine del 3,8% che basta a spingere verso una decisione epocale. Anche in questo caso la geografia elettorale è istruttiva. 

Due nazioni che compongono il Regno Unito, cioè la Scozia e l’Irlanda del Nord, votano massicciamente (67% e 63%) per restare in Europa. La vera Inghilterra insieme col Galles votano al 53% per staccare gli ormeggi. All’interno dell’Inghilterra spicca però l’eccezione di Londra dove il 60% vuole Remain. La capitale che è anche l’unica vasta metropoli del paese è in netto contrasto con le province. Altre linee rosse oltre a quelle geografiche separano i globalisti sconfitti dai sovranisti vincitori: tracciano confini di età, istruzione, etnìa. Le frontiere divisorie tra le tribù sono simili a quelle degli Stati Uniti. Tre quarti dei giovani nel Regno Unito votano per restare nell’Ue (in America Trump non è piaciuto ai giovani) mentre il 60% degli ultrasessantacinquenni è felice di tornare allo splendido isolamento di Albione. Il 65% dei britannici con una laurea vuole restare europeo ma chi non ha titoli di studio superiori alla maturità sceglie Brexit (in America i laureati hanno votato Hillary). I disoccupati inglesi votano a maggioranza per l’uscita. Tra gli immigrati con cittadinanza e quindi diritto di voto, stravince il Remain così come in America le minoranze etniche hanno preferito la Clinton.

È difficile resistere alla tentazione di etichettare come «élite» i globalisti (hanno studiato di più e guadagnano di più, vivono nelle metropoli più dinamiche) e come «popolo» i sovranisti. Poi le etichette ognuno le usa come gli pare. Non sono per forza giudizi di valore. È meglio evitare comunque i preconcetti di ogni genere, compreso lo stereotipo per cui un operaio che non vota per la sinistra «agisce contro i propri veri interessi». È pericoloso pensare che solo chi ha studiato meno sia facile preda di errori nelle sue scelte politiche; o che chi non vota come noi cade in un inganno, è manipolato, cede agli istinti peggiori, ecc.

Mi viene in mente il 1977. Avevo vent’anni, esordivo da giornalista nella stampa del Partito comunista italiano, ai tempi di Enrico Berlinguer. «Città Futura», «Rinascita». Facevo l’inviato sindacale. Frequentavo gli operai della Fiat-Mirafiori, dell’Alfa Romeo di Arese o Pomigliano d’Arco. Ammiravo il leader dei metalmeccanici Bruno Trentin. La classe operaia, sulle sue spalle, doveva traghettare l’Italia verso un futuro migliore. Non è andata così. Ho celebrato i miei 40 anni di attività a Detroit, altra capitale dell’auto. Ho incontrato lì altri metalmeccanici: quelli che hanno votato Trump. Fra queste estremità della mia vita c’è in mezzo un segnale premonitore: ero corrispondente a Parigi quando di colpo la «banlieue» operaia passò dal Partito comunista francese di Georges Marchais al Fronte nazionale di Le Pen padre.

La Francia, ecco un altro Paese dove la geografia fa capolino alle urne in modo interessante. La geografia sociale che ho vissuto da vicino, dal 1986 al 1991, cambiò colore brutalmente a intere periferie come La Seine-Saint Denis, da rosse a nere in poco tempo. C’era un socialista all’Eliseo, il presidente François Mitterrand. Passò in pochi anni da una politica economica di ultra-sinistra – nazionalizzando le grandi banche e aziende – ad una sterzata rigorista in sintonia con la Germania di Helmut Kohl.

Ancora più determinante per spostare il voto operaio fu l’immigrazione. La borghesia radical-chic dei bei quartieri con nomi famosi (Saint-Germain e Luxembourg, Marais e Ile Saint-Louis, Ecole Militaire e Invalides, XVI arrondissement e Neuilly-sur-Seine) gli immigrati arabi li incontrava come donne delle pulizie e netturbini, guidatori del metrò e fattorini delle consegne. Gli operai francesi invece li avevano come vicini di pianerottolo nei caseggiati popolari. I figli dei maghrebini andavano nelle stesse scuole delle loro figlie. La differenza era tutta lì. L’allarme sulla difficoltà d’integrazione – o sul rifiuto d’integrarsi – delle comunità islamiche, qualcuno lo viveva sulla propria pelle, non leggendo articoli sui giornali. Di lì a poco in quella che è stata assurdamente definita come una Intifada delle banlieues, gli adolescenti figli di immigrati maghrebini hanno cominciato a fare guerriglia urbana. Le automobili incendiate erano dei loro vicini di casa, gli operai ex-comunisti. I borghesi della Rive Gauche l’Intifada se la vedevano la sera sui Tg, il popolo sentiva la puzza di bruciato aprendo le finestre.

Ma le letture geografiche del voto si possono arricchire e aggiornare di continuo. Sulla Francia che ha eletto Macron è interessante la lettura di Franco Farinelli che s’ispira ad una ripartizione fatta nel 1929 dal grande storico Marc Bloch. Il libro di Bloch citato da Farinelli sul «Corriere della Sera» del 28 maggio s’intitola I caratteri originali della storia rurale francese e ha ispirato altri studi sul paesaggio europeo, a partire dall’architettura campestre.

Cito qui la sintesi che ne fa Farinelli, con la conclusione politica. «Bloch individuava due grandi e opposti regni all’interno del territorio del proprio Paese: a Occidente, verso l’Atlantico, il dominio dei campi tozzi recintati da siepi (bocage) e delle sedi sparse; a Oriente, in direzione dell’Europa centrale, l’ambito invece dei lunghi campi aperti e degli abitati accentrati, composti da case ammassate le une alle altre. In prossimità della costa oceanica si dispiegava una civiltà contadina fondata su una forte tradizione di autonomia, in cui di fronte alle siepi il potere dell’autorità si arrestava e ogni contadino era padrone di coltivare sul proprio campo quello che preferiva.

Verso l’Europa continentale, al contrario, la pressione molto più vigorosa della comunità si traduceva nella rotazione obbligatoria delle colture, nell’esistenza di una serie di servitù collettive (di transito, d’irrigazione) sugli appezzamenti, tutti privi di qualsiasi visibile segno del passaggio da una proprietà all’altra, nello scambio di vicendevoli reciproche prestazioni di manodopera. L’ambito dei campi aperti si estendeva, e ancora risulta leggibile, in tutta la Francia a Nord della Loira, nelle due Borgogne, in Provenza. E, ad eccezione della regione parigina, esso coincide oggi quasi alla perfezione con i dipartimenti che hanno votato per Marine Le Pen, mentre tutta la Francia atlantica dei campi chiusi ha votato per Emmanuel Macron».

La linea rossa che separa le due France sarebbe quindi antichissima.

Il sospiro di sollievo con cui l’élite europea ha accolto la vittoria di Macron – celebrata come «l’inizio della fine» dell’onda populista – non può far dimenticare l’esile mandato di questo presidente votato da una minoranza dei suoi concittadini: solo il 44%. Al secondo turno delle presidenziali francesi il 7 maggio 2017 c’è stato il più alto astensionismo da mezzo secolo (25%) più quattro milioni di schede bianche. Il massimo delle astensioni: tra i giovani e i disoccupati. E da quando è stato eletto la sua popolarità nei sondaggi è scesa brutalmente. Scommettere sulla fine dei populismi è azzardato, perché le cause che li hanno generati sono tutte lì.

Uno sguardo all’economia. La creazione di moneta ci ha salvati da una Grande Depressione. È questo il tratto dominante dell’economia post-crisi in cui viviamo. Governi spesso paralizzati, politiche di bilancio pubblico assenti o controproducenti (austerity), supplenza dei banchieri centrali che hanno riempito un vuoto di leadership. Dalla crisi iniziata dieci anni fa l’Occidente è uscito a velocità diverse. L’America ricominciò a crescere già a metà del 2009 grazie ad una combinazione fra investimenti pubblici (800 miliardi di «stimolo» obamiano) e una politica monetaria molto aggressiva. La Federal Reserve lanciò subito la politica del tasso zero e soprattutto il «quantitative easing» cioè massicci acquisti di bond per irrorare di credito a buon mercato l’economia reale. La Bce seguì con grave ritardo, causa le resistenze tedesche, e comunque l’Eurozona non ebbe mai uno stimolo dagli investimenti pubblici: al contrario su quel fronte pigia il pedale del freno. Comunque da quando la Bce ha emulato la Fed i risultati ci sono, l’Eurozona cresce a una velocità del 2,5%.

Il vero problema su cui né la Bce né la Fed possono intervenire, esula dalle loro competenze. È la malattia cronica che affligge l’economia reale anche nelle aree più forti come America e Germania. Stagnazione secolare è il termine adeguato. La crescita è tornata ma la sua velocità e modestissima rispetto agli anni felici del capitalismo occidentale (il trentennio dalla ricostruzione post-bellica). L’occupazione aumenta ma con una forte componente di precariato sottopagato. La produttività è ferma, a riprova che le innovazioni sfornate dalla Silicon Valley sono frivolezze poco rilevanti (se non ai fini di massimizzare i profitti dei colossi digitali). Le diseguaglianze sociali sono ai massimi e non accennano a ridursi. Questa è una ragione forte dietro le ondate di populismo e la sfiducia verso l’establishment.