«Io, come il leggendario Cid»

Fidel dixit – Alcuni passaggi del discorso pronunciato nel 2005 all’Università dell’Avana
Per più di 40 anni abbiamo mantenuto rapporti molto stretti con il movimento rivoluzionario in America Latina. Non abbiamo mai pensato di dire loro cosa dovevano fare. Scoprivamo, inoltre, l’impegno con il quale ogni movimento rivoluzionario difendeva i propri diritti e prerogative. Ricordo momenti cruciali, lo dico qui e ne riferirò soltanto una piccola parte. Quando l’Urss crollò molti rimasero soli, tra cui noi, i rivoluzionari cubani. Tuttavia, noi sapevamo cosa fare, quali scelte compiere. (...)

Penso che l’esperienza del primo Stato socialista, Stato che avrebbero dovuto riorganizzare e non distruggere, è stata molto amara. Non crediate che non abbiamo pensato spesso a quel fenomeno incredibile mediante il quale una delle più grandi potenze del mondo, che era riuscita a bilanciare il rapporto di forze nei confronti dell’altra superpotenza, un Paese che pagò con la vita di oltre 20 milioni di cittadini la lotta contro il fascismo e schiacciò il fascismo, crollò in quel modo. (...) 

Sono forse le rivoluzioni destinate a crollare o sono gli uomini a far crollare le rivoluzioni? Possono gli uomini, la società, impedire che le rivoluzioni crollino? Potrei aggiungere una domanda. Credete che questo processo rivoluzionario, socialista, potrebbe crollare? (Esclamazioni di: «No!» ). L’avete pensato qualche volta? L’avete pensato profondamente? (...)

Ed eccoci arrivati alla questione relativa ai piani di transizione e ai piani militari di azione per un determinato momento storico dell’impero che ci minaccia e perseguita. Loro aspettano un fenomeno naturale ed assolutamente logico, cioè, la morte di qualcuno. E mi hanno fatto il notevole onore di pensare a me. Sarà una confessione di ciò che non sono riusciti a fare in molto tempo. Se fossi vanitoso, potrei vantarmi del fatto che quei tizi affermino che devono aspettare la mia morte affinché si produca la transizione. Pensavo: «Se dovrò morire, morirò, e se non muoio recupererò le facoltà; in ogni modo ho qualche esperienza, e una certa autorità e non proprio guadagnata con la menzogna ed il disonore». (...) Una volta dichiarai che il giorno in cui morirò nessuno ci crederà, infatti, potrei andare come il Cid Campeador, che ormai morto lo mettevano a cavallo a vincere le battaglie. (...)

Fidel Castro con il presidente russo Nikita Krusciov al Mausoleo di Lenin in Piazza Rossa a Mosca, 7 maggio 1964 (AFP)

Populismo e retorica

Un falso mito? – In realtà il Comandante era un monarca, che ha condannato alla povertà 11 milioni di persone e che non sarebbe sopravvissuto senza i soldi dell’Unione Sovietica
/ 05.12.2016
di Angela Nocioni

Dopo nove giorni di lutto nazionale obbligatorio e un corteo funebre che ha attraversato tutta l’isola di Cuba, dall’Avana a Santiago, l’urna con le ceneri di Fidel Castro è stata tumulata accanto alla tomba di José Martì, eroe dell’indipendenza cubana. Milioni di cubani hanno reso omaggio, durante l’ultima settimana, alla memoria del Comandante in capo. Molti piangevano.

Sarebbe interessante sapere cosa pensassero mentre porgevano l’ultimo saluto all’uomo che è stato il padrone delle loro vite, dei loro passaporti, delle loro tessere annonarie.

Sarebbe bello anche poter credere nella sincerità delle loro risposte. Peccato che il lungo funerale del lìder maximo si sia svolto, come quasi ogni attività pubblica e privata a Cuba, sotto l’occhio vigile dei Cdr, i comitati di difesa della rivoluzione, la cui sola fama ha il potere di atterrire chiunque sull’isola, perché i Cdr, come ogni sistema di sorveglianza che funzioni davvero, hanno l’inquietante capacità di far sentire le persone guardate a vista anche quando non lo sono. I Cdr sono ovunque a Cuba. Ce n’è uno in ogni strada. Sono composti da vicini occhiuti, civili addestrati a fare la spia, a controllare chi c’è, chi non c’è, cosa fa, con chi è, se commenta qualcosa e cosa dice. Nessun cubano avrebbe potuto dire, ad esempio, una frase innocua del genere: «Io sono venuto a dare l’estremo saluto a Fidel, ma non ero d’accordo con lui» senza finire dritto in galera per restarci a lungo.

Fidel Castro ha vissuto come un monarca disinteressato alle sorti dei suoi sudditi, rimasti tali dopo sessant’anni di rivoluzione. Lo è diventato quasi subito dopo aver preso il posto di Fulgencio Batista nel gennaio del 1959, al termine di una vittoriosa rivoluzione che si era annunciata di liberazione dall’oppressione di un tiranno e che per molti cubani lo fu. Decenni di educazione socialista hanno poi insegnato a milioni di persone a mentire per timore e per convenienza, a compiacere, a spiare, a tradire, a vendersi, a non alzare mai la testa. La luminosa società degli Uomini Nuovi che Fidel Castro diceva di voler costruire è ancora un posto in cui le attività più diffuse sono il furto allo Stato e la prostituzione.

L’aura di mistero, di segreto, con cui Fidel ha avvolto meticolosamente la sua vita al potere – cioè tutta la sua vita dal 1959 al 25 novembre scorso, giorno in cui è stata data notizia della sua morte – l’imponenza fisica della sua figura e la sua bellezza hanno aiutato la diffusione di molti miti sul suo conto. Alcuni elaborati dalla propaganda del regime, altri creati dai suoi spontanei adulatori. In questi giorni si è sentito molto parlare di una sua straordinaria cultura, per dirne una. Chissà se è vero. Di certo Fidel era un brillante avvocato, con l’ottima educazione dei collegi gesuiti alle spalle, che leggeva molto, da Seneca ai trattati di giardinaggio. Con la pretesa di farsi esperto di qualsiasi materia diventasse oggetto della sua attenzione e soprattutto con la presunzione di riuscirci. Ne sanno qualcosa i suoi ospiti internazionali, costretti ad annuire per ore a dettagli insulsi durante interminabili dissertazioni su tutto. Anche sulla coltivazione idroponica, sugli orti urbani, sulle incredibili proprietà antiossidanti di un frutto locale che piaceva solo a lui. E ne sanno qualcosa i poveri cubani che la sera, durante l’attesa degli uragani, frequenti a Cuba, tappati in casa con i legni alle finestre, non potevano nemmeno vedersi in pace la telenovela delle otto perché in tv c’era Fidel meteorologo piazzato con la bacchetta davanti alla cartina geografica che straparlava di venti e onde.

I soggiogati dalla sua leggendaria astuzia, dalla sagacia, dall’imprevedibile temperamento (che poi era prepotenza pura) si sono bevuti il mito del Comandante en jefe, come se Fidel non fosse soprattutto un monarca tenutosi sempre ben distante dal suo popolo. Perché l’ultimo comunista del pianeta ha vissuto lontano dall’«extraordinario pueblo cubano» a cui si rivolgeva con enfasi.

Quando il Comandante si prese il potere per sé, prima di consegnare l’isola per calcolo all’Unione Sovietica, non era marxista. Era un nazionalista populista, un uomo d’azione. Un ottimo stratega, uno straordinario scacchista, favorito, in piena Guerra Fredda, dalla posizione geografica dell’isola socialista che galleggia a novanta miglia di mare dalla Florida.

S’è sempre dato arie da Messia, ma mentiva Fidel, mentiva e con tono ieratico. Diceva che a Cuba non si torturava, ma chiunque sia passato dalle stanze della polizia rivoluzionaria racconta tutta un’altra storia. Diceva che a Cuba non c’era razzismo, ma la periferia dell’Avana è disseminata di baraccopoli piene di soli neri, esattamente come succede in altre città latinoamericane, con la differenza però che le baraccopoli cubane sono illegali, cioè ufficialmente inesistenti, cancellate dallo scenario di cartapesta del regime che nega ancora quel che non gli piace, persone comprese.

Fidel era insopportabilmente paternalista, sempre pedagogico. Era dogmatico, apocalittico. Ogni parola, un comandamento. Ogni gesto, un segno definitivo nella lotta epica tra bene e male. Ripetitivo, capace di parlare per ore, con il dito indice sempre alzato. Una specie di Savonarola. La metà dei suoi discorsi sembravano omelie recitate a braccio. Contro l’individualismo, l’egoismo, il consumismo, che guarda caso sono rimasti gli unici fari accesi, al momento, tra i cubani nati dopo il trionfo della rivoluzione, cioè ormai quasi tutti, in una Cuba post-socialista dove ciascuno fa per sé e ci si vende al primo turista che passa per consumare di più e meglio, non per mangiare.

Ha distribuito comandamenti a tutti, Fidel Castro, per mezzo secolo, ma l’unico suo credo è stato il mantenimento del potere. E questo si vedeva benissimo, da subito, già nei gloriosi anni Sessanta, non c’era bisogno d’aspettare che venisse giù tutta l’Urss per capire che Castro voleva il potere per sé.

Finché è stato utile alla sopravvivenza del regime il modello moscovita, a Fidel è andato benissimo abbracciarlo per intero copiando da Mosca la burocrazia sovietica, la censura, l’apparato militare e poliziesco, lo spionaggio interno, l’infantile apparato di propaganda, l’eliminazione degli avversari, il controllo minuzioso sulla vita quotidiana delle persone. El Hombre nuevo, alieno ai vizi del capitalismo, che doveva nascere a forza da questo esperimento di purezza, per fortuna non è mai nato.

Fidel Castro ha costretto con mostruosa ostinazione la sua gente dentro un surreale circo socialista finanziato con i soldi di Mosca prima e del Venezuela chavista poi. Quest’ultimo ripagato non solo con le missioni di medici (gran parte dei medici cubani non è tornata indietro dalle missioni internazionali, ha chiesto asilo ovunque, anche nei posti meno accoglienti della Terra: ci sarà una ragione?) ma con l’appalto gratuito dei servizi di sicurezza, l’unica cosa che ha sempre funzionato a Cuba.

Difficile intravedere in Fidel un’anima autentica da libertador: era un capo inclemente che è riuscito per anni a vietare il rock and roll in un’isola che trasuda musica. Bastava guardare la gioia liberatoria con cui all’Avana, il 25 marzo scorso, sono stati accolti i Rolling Stones quando sono usciti sul palco del loro primo concerto, per capire la paranoica assurdità dei divieti mantenuti per decenni dal regime.

Quando un Fidel ancora giovane decise di mostrare la sua omofobia brutale, perché l’omosessualità rientrava tra i vizi borghesi che si dovevano estirpare, quello che fece fu tentare di far sparire gli omosessuali (lui li chiamava enfermitos). Poco morbide furono anche le campagne per la rieducazione delle prostitute, cancellate a intermittenza dalla mappa pubblica dell’isola perché la Cuba rivoluzionaria non doveva somigliare al bordello per americani che era ai tempi di Batista e che probabilmente tornerà ad essere, dopo esserlo stato nel frattempo per migliaia di turisti del resto del mondo, soprattutto europei.

Cosa c’è di giustificabile nel modo imperioso con cui quest’uomo ha costretto milioni di persone a un’anti-modernità rurale facendo della repressione delle libertà individuali e dell’odio per la democrazia liberale, l’anima di una rivoluzione fallita?

Fidel Castro non ha mai ammesso mezzo errore, nemmeno davanti al disastro economico, all’evidenza del nepotismo rampante, ai privilegi smisurati della élite militare. Avrebbe lasciato scappare per mare e avrebbe lasciato affogare mezzo Paese, piuttosto. Come già mostrò di essere disposto a fare nel 1980, con l’esodo del Mariel. Una delle mosse più intelligenti e azzardate di Fidel. Lasciò correre la voce che chi voleva poteva andarsene da Cuba, salpare liberamente per gli Stati Uniti, diede anche libera uscita dalle patrie galere perché le zattere si riempissero di un assortito campionario di umanità da spedire in Florida. Così costrinse Jimmy Carter a trattare un accordo migratorio. Un genio. Sta di fatto che se l’accordo non si fosse trovato, l’Avana si sarebbe svuotata: tutti volevano scappare dal Paradiso.

Raccontano da laggiù che la sera della diffusione della notizia della sua morte, dopo che dalle discoteche improvvisamente chiuse del quartiere Vedado della capitale si erano riversate in strada centinaia di ragazzi incerti, in attesa degli eventi, a un certo punto è passato davanti al Salon Rojo dell’Hotel Capri un vecchio carro funebre riconvertito in taxi, uno dei tanti trabiccoli che circolano all’Avana da quando sono stati liberalizzati i piccoli mestieri privati. Dalla folla si è alzata una voce maschile: «Llevatelo!» (Pòrtatelo via!). Raccontano di risate soffocate. Poi silenzio.