E se candidassimo Paolo Gentiloni? Nel Partito democratico in crisi d’identità, attraversato da risentimenti e malumori, un’ipotesi dapprima soltanto sussurrata va prendendo piede. L’attuale presidente del consiglio, al quale Matteo Renzi aveva ceduto la carica dopo l’insuccesso nel referendum sulla riforma costituzionale, da figura transitoria si è trasformato in un personaggio autorevole e rispettato, in Italia e sulla scena internazionale. Secondo i sondaggi è il più popolare fra gli attori del teatro politico romano, certo più popolare dell’uomo cui dovrebbe tenere in caldo la poltrona. Il suo stile sobrio, le sue parole misurate hanno sedotto un’opinione pubblica che ne aveva abbastanza di declamatori sopra le righe come Berlusconi e Renzi. Pacato e sornione, l’ex ministro degli esteri che fu incaricato di presidiare Palazzo Chigi nell’attesa del ritorno di un padrone di casa momentaneamente assente, gestisce senza scomporsi la sua difficile posizione, non senza far notare che «l’Italia ha bisogno di istituzioni rassicuranti». Michele Emiliano, governatore della Puglia, esponente democratico tutt’altro che renziano, fa propria l’idea garantendo implicitamente un vasto gradimento nel Sud.
È l’elemento nuovo in quella campagna elettorale permanente che contrassegna la politica italiana. Si voterà la prossima primavera, alla scadenza naturale della legislatura, ma è come se si votasse domani. Ormai da tempo i contendenti incrociano le lame e confrontano slogan e visioni del mondo. Non soltanto in Sicilia, dove il 5 novembre si voterà per l’elezione del presidente della Regione e dei settanta deputati dell’assemblea. L’esito del voto appare incerto, ma la partita sembra circoscritta a un duello fra il candidato del Movimento cinque stelle Giancarlo Cancelleri, sul quale grava l’ombra di un’irregolarità nelle primarie che lo hanno espresso, e quello del centrodestra Nello Musumeci. Arranca in terza posizione l’uomo del Pd, il rettore dell’università di Palermo Fabrizio Micari. Incombe dunque sul partito di Renzi lo spettro di una nuova sconfitta, tanto che l’ex presidente si affretta a mettere le mani avanti: questo, fa sapere, non va considerato un test nazionale. Immediata e non precisamente tenera la replica di Massimo D’Alema, esponente dei gruppi che contestano da sinistra il Pd: dire che il voto della Sicilia è un fatto locale è da idioti!
Proprio la possibile batosta siciliana potrebbe essere l’occasione per tentare la sostituzione di Gentiloni a Renzi, al quale la pattuglia sempre più numerosa dei democratici dissenzienti chiederebbe ragione dei continui disastri, invitandolo a farsi da parte. Anche per neutralizzare la minaccia dei gruppi di sinistra, che l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia sta cercando faticosamente di compattare. Ma i renziani, stretti attorno al loro leader in quello che si usa chiamare «giglio magico», assicurano che questo scenario è fuori dalla realtà: c’è un patto fra Gentiloni e il suo predecessore, fanno notare, e l’attuale presidente è persona leale. Già, ma se i sondaggi, dopo l’eventuale insuccesso in Sicilia, facessero balenare una nuova disfatta nel nome di Renzi? Quest’ultimo continua palesemente a puntare su Palazzo Chigi ma fatica a controllare il suo partito. Da tempo appare sulla difensiva, ruolo che non si addice affatto al suo temperamento aggressivo: la sua popolarità in declino è regolarmente misurata dai sondaggi d’opinione. Del resto la questione di Palazzo Chigi ha qualcosa di surreale, visto che nel sistema proporzionale attualmente in vigore non esiste la figura del candidato premier: è il presidente della Repubblica a conferire l’incarico di formare il governo, all’indomani del voto, sulla base del risultato elettorale e delle consultazioni con i delegati dei partiti.
Alla crisi di popolarità di Renzi corrisponde il rilancio del suo storico contendente Silvio Berlusconi. Il vecchio leader appare di nuovo in forma e buona parte dei conservatori continua a riconoscerlo come capo. Il redivivo si presenta in pubblico felice e disteso, dispensatore di battute e storielle, sorridente come ai bei tempi. Eppure la sua leadership sul centrodestra è tutt’altro che scontata, soprattutto non la considera tale il segretario della Lega Matteo Salvini. Va ricordato che Forza Italia e Lega ormai si equivalgono sul piano dei consensi: l’una e l’altra valutate attorno al quattordici-quindici per cento. Il leghista sente di avere il vento in poppa e dunque sfida l’alleato Berlusconi, quest’ultimo attende fiducioso la sentenza della Corte di Strasburgo che gli permetta di ricandidarsi per Palazzo Chigi, ma forse i tempi sono troppo stretti, dunque in alternativa propone il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani o il manager di Fiat-Chrysler Sergio Marchionne, che peraltro ha rifiutato la prospettiva.
Il nostro candidato, proclama invece Salvini implicitamente proponendo se stesso, sarà la Lega a sceglierlo. Forse ammaestrato dalle pesanti sconfitte elettorali dei suoi ispiratori europei, la francese Marine Le Pen e l’olandese Geert Wilders, Salvini ha corretto il suo approccio, soprattutto riguardo l’Unione Europea fin qui indicata come causa di quasi tutti i mali. Ha continuato, del resto, a cavalcare una tigre che non a torto ritiene assai redditizia sul piano del consenso: una durissima posizione sul tema delle migrazioni. Rifiuto dell’accoglienza, ostilità all’«islamizzazione», niente cittadinanza ai figli di stranieri anche se nati e scolarizzati in Italia, persino castrazione chimica per i responsabili delle violenze sessuali, che sulla base di alcuni drammatici eventi di cronaca attribuisce senz’altro agli immigrati.
Nonostante questo, per rendersi salonfähig Salvini accetta l’invito al Forum Ambrosetti di Cernobbio, fin qui snobbato come covo di benpensanti legati alle logore istituzioni di «Roma ladrona», come diceva Umberto Bossi. A Cernobbio occupa la scena anche Luigi di Maio, il vicepresidente della Camera che il Movimento cinque stelle accredita come futuro presidente del consiglio. Anche Di Maio salta il fosso dell’incomunicabilità istituzionale, dichiarando che il Movimento è «pronto a governare l’Italia». Poi sforna, adattandosi all’anglomania che imperversa nella politica romana, lo slogan dell’Italia smart nation. Gli ricordano che le prove generali della competenza governativa sua e dei suoi non sono proprio esaltanti, che per esempio Roma, da quindici mesi amministrata dai pentastellati, è tutt’altro che smart. Risponde che le cause dei mali di Roma affondano nei decenni precedenti la giunta di Virginia Raggi, dunque poco hanno a che fare con la nuova dirigenza. Tuttavia i grillini sono consapevoli che quella disastrosa esperienza è un ostacolo sulla via di Palazzo Chigi: non potendo sconfessare esplicitamente la signora del Campidoglio la isolano all’interno di una sorta di cordone sanitario. Di Maio assicura, del resto, che un’armonica cooperazione fra il futuro governo a cinque stelle e il comune restituirà alla capitale l’antico splendore.
Intanto continua a crescere il tasso di rissosità della politica. Si bisticcia ormai su tutto. Non c’è fatto d’attualità che non scateni polemiche fra i partiti e fra i media più schierati. Prima di tutto i migranti, tema da sempre esplosivo, tanto più dopo gli arrivi massicci che soltanto da poco la strategia del ministro dell’interno Marco Minniti ha potuto contenere attraverso laboriosi accordi con le parti libiche. Anche questo approccio innesca polemiche, a sinistra si accusa Minniti di abbandonare i profughi a un oscuro destino nei lager in Libia. In soccorso del ministro arriva inattesa la voce del papa: è doveroso accogliere, dice Francesco, ma nei limiti delle possibilità d’integrazione. Altro tema di rabbiose polemiche, la criminalità importata. Una turista polacca viene stuprata sulla spiaggia di Rimini, una finlandese a Roma? La Lega e la stampa simpatizzante attaccano i «buonisti» difensori dei migranti, sparano a zero sul business dell’accoglienza, fanno di tutta l’erba un fascio: il lavoratore straniero e lo stupratore, il richiedente asilo politico e il terrorista islamico.
Non è finita: i partiti bisticciano anche sulla legge che rende obbligatorie le vaccinazioni. Secondo Salvini questo obbligo è un «diktat sovietico». Poi a quanto pare ci ripensa, visto che nemmeno gli amministratori del suo schieramento lo seguono su quel terreno. La politica s’impadronisce della cronaca e la piega a suo uso e consumo. Una bimba muore di malaria in un ospedale veneto? Lega e stampa conservatrice insorgono: non c’erano forse in quello stesso ospedale due piccole pazienti venute dal Burkina Faso? La conclusione è ovvia: i migranti ci portano anche le malattie! Si bisticcia perfino sull’alluvione che ha devastato Livorno, con il sindaco (cinque stelle) che attacca l’organo di protezione civile del governo regionale toscano (centrosinistra), perché alla vigilia del disastro aveva comunicato l’allerta arancione e non la rossa, con una conseguente mobilitazione inadeguata rispetto alle dimensioni reali dell’evento. Firenze replica che l’allerta arancione era quella giusta, e che non ci sarebbero state inondazioni se il comune avesse ripulito i corsi d’acqua che attraversano la città. Invano Gentiloni chiede un soprassalto di decenza: abbiamo dei morti da seppellire, non è tempo di polemiche...