Più forti sulla via della Brexit

Strategie politiche – In un inatteso discorso alla nazione, la premier Theresa May ha annunciato elezioni anticipate per l’8 giugno. Secondo gli osservatori ha bisogno di contare su un netto vantaggio del suo partito conservatore rispetto all’opposizione laburista, in grado di rafforzarla nel cammino verso la fuoriuscita dall’Unione europea
/ 24.04.2017
di Cristina Marconi

Ha deciso di «rivolgersi al paese», di chiedere agli elettori un mandato più forte per affrontare le turbolenze della Brexit e liberarsi dei ricatti di chi pensa che dall’Unione europea si possa uscire con un taglio netto, senza compromessi. Theresa May, la premier britannica, al ritorno dalla pausa di Pasqua, dopo una lunga camminata con il marito Philip sui monti del Galles, ha indetto a sorpresa nuove elezioni a meno di un anno dal referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit, subito approvate con maggioranza schiacciante dal Parlamento. Nella speranza di raggiungere una maggioranza che le permetta di fare piazza pulita delle debolezze che potrebbero ostacolarla nei prossimi mesi, la May è venuta meno alla promessa, fatta ben cinque volte da quando è stata nominata premier, che avrebbe aspettato la scadenza naturale della legislatura, nel 2020.

Ma la tentazione di andare al voto era troppo forte, con condizioni irripetibili come quelle che la premier ha davanti: uno stacco di venti punti rispetto ad un Labour sempre più esangue, un negoziato con l’Unione europea in fase di stallo in attesa delle elezioni francesi e di quelle tedesche e un sostegno da parte del suo partito che ancora non ha dato segni di cedimento, nonostante un anno politicamente difficilissimo. Si dice che Sir Lynton Crosby, lo stratega politico che aveva assicurato la vittoria dei Tories nel 2015, visitando l’ufficio della May le abbia suggerito di cogliere l’attimo e di andare alle urne. Ora sarà lui, l’infallibile, a guidare la sua campagna.

Alcune delle ragioni che hanno spinto la premier a uscire nel sole freddo di Downing Street ad annunciare che «l’unico modo per garantire certezza e stabilità per i prossimi anni» è andare a votare sono chiare, mentre altre vanno lette nel contesto di uno scenario politico che il referendum del 23 giugno scorso ha reso ancora più complesso. Il manifesto con cui i conservatori hanno vinto le elezioni del 2015 è superato e prima o poi le promesse fatte in quell’occasione ormai lontana dal predecessore David Cameron sarebbero state usate contro il governo. Inoltre il Parlamento ha una maggioranza notoriamente contraria all’uscita dalla Ue e sebbene sia apparso molto docile nel dare mandato al governo di negoziare la Brexit, non è detto che nei prossimi due anni questa vulnerabilità non avrebbe finito col fare il gioco di Bruxelles e degli altri Stati membri della Ue. 

Nelle poche settimane che la separano dalla giornata elettorale, l’inquilina di Downing Street non ha veri avversari: i Lib Dem andranno probabilmente molto bene rispetto al passato – pare che nella giornata dell’annuncio abbiano registrato 2500 nuovi tesserati in poche ore – ma è difficile che superino i venticinque seggi, mentre il Labour potrebbe essere ancora più debole del previsto, anche perché se l’ipotesi di dover trattare con i nazionalisti scozzesi dell’Snp aveva già danneggiato le prospettive di un leader più solido come Ed Miliband, sicuramente sarebbe letale per Corbyn, che oltretutto avrebbe come interlocutore Nicola Sturgeon, ancora più scaltra e aggressiva del suo predecessore Alex Salmond, in un contesto di crescenti timori per l’unità del Paese.

Le debolezze di Corbyn, le sue passate simpatie per Hamas e per l’Ira, solo per citarne alcune, non sono ancora passate alla prova di una campagna elettorale, ma certo non saranno facili da gestire. Il Labour ha annunciato di volere una campagna impostata sui temi sociali e sull’incapacità dei Tories di amministrare il Paese tenendo conto delle esigenze dei più deboli, anche perché in materia di Brexit il partito è troppo spaccato per poter cavalcare il tema in serenità. Molti deputati hanno dichiarato che non si ricandideranno e anche se queste elezioni colgono il partito in una fase di debolezza assoluta, c’è chi in fondo è contento che la resa dei conti sia stata anticipata. Se bisogna tornare al 1983, quando ci si chiedeva se il Labour fosse ancora il secondo partito, è meglio farlo subito.

Per il politologo John Curtice, presidente del British Polling Council, la May non intende fare una campagna sull’uscita dalla Ue, «bensì su quelli che lei ritiene essere i meriti del suo approccio alla Brexit», contando sul fatto che molti Tories che hanno votato a favore della Ue lo hanno fatto seguendo le indicazioni di David Cameron e non perché seriamente affezionati al progetto comunitario. Ma la Brexit resterà uno dei temi cruciali e chi pensa che i britannici si siano pentiti della loro decisione sbagliano secondo Curtice. «È sempre un Paese spaccato a metà e da che parte propenda realmente è difficile dirlo», osserva il professore: «Ogni sondaggio però parla di una maggioranza del 4-5% che sostiene che la Brexit sia stata la decisione giusta». A suo avviso la May ha in tasca la vittoria, ma forse non la vittoria travolgente che si aspetta: «Non è affatto certo che riesca a realizzare il suo obiettivo, ossia una maggioranza sostanziosa, il controllo della Camera e nessuna fazione ribelle di cui preoccuparsi», per via dei cambiamenti alla geografia elettorale, dello strapotere degli indipendentisti dell’Snp in Scozia e del rafforzamento dei Lib Dem nelle zone di Londra e del Sud del Paese dove la Brexit non è stata mai digerita.

«I tredici seggi di ora, che non le bastano, corrispondono ad un vantaggio del 7%. Se ottiene una maggioranza di 16 punti e un centinaio di seggi sarà felice, anche se non si tratta della maggioranza più ampia del Dopoguerra. Ma se il margine si riduce e il vantaggio è solo di 10 punti, la sua situazione non migliora molto rispetto ad ora. E può succedere», osserva Curtice. La frangia più dura da convincere rimangono i conservatori oltranzisti, quelli che prima potevano essere tentati da Ukip ma che ora, davanti ad un partito al collasso, hanno bisogno solo di qualche rassicurazione in più sul fatto che la Brexit si farà davvero per giurare la loro fedeltà alla May. Rassicurazioni che probabilmente la premier non esiterà a dare per andare al negoziato con Bruxelles con un mandato forte, che le permetta di raggiungere un accordo e non, come vorrebbero alcuni, con una rottura netta, micidiale per il futuro del Paese.

Subito dopo l’annuncio del voto Deutsche Bank ha osservato come le elezioni anticipate non diano mandato al governo per una «hard Brexit» ma al contrario riducano il rischio che le trattative si concludano con un fallimento. E infatti la sterlina, dopo un primo momento di calo, ha iniziato a salire. Gli unici ad astenersi dal votare sulle elezioni sono stati i 54 deputati dello Scottish national party, che hanno scelto la linea più aggressiva contro i Tories. La scozzese Nicola Sturgeon ha parlato di «virata a destra» e di «grave errore di calcolo» da parte della premier, visto che la campagna in Scozia verrà dominata dal tema dell’indipendenza, su cui l’Snp vuole un secondo referendum subito dopo la fine dei negoziati con Bruxelles. Evento che i conservatori vogliono rinviare il più possibile: col rischio che l’appuntamento referendario arrivi troppo a ridosso delle prossime elezioni, che saranno nel giugno del 2022.