Pil su, Covid-19 giù

Cina – È la prima nazione (con un regime autoritario) a ricominciare a crescere economicamente dopo la pandemia
/ 26.10.2020
di Giulia Pompili

La Cina è il paese dove tutto ha avuto inizio. Il luogo dove è iniziata la pandemia, dove la poca trasparenza, l’autoritarismo del governo centrale e l’eccessiva burocratizzazione hanno contribuito alla diffusione internazionale del nuovo Coronavirus. Eppure la Cina è anche il primo paese ad aver avuto per più di due mesi di seguito zero trasmissioni interne di Covid-19, e contemporaneamente è anche la prima economia del mondo a tornare a crescere dopo la peggiore crisi dal secondo Dopoguerra. Secondo i dati dell’Istituto cinese di statistica, nel terzo trimestre del 2020 il prodotto interno lordo della Cina è aumentato del 4,9 per cento. È un dato di certo inferiore al 5,2 per cento che era stato previsto dagli analisti, ma è stato sufficiente per riportare la crescita del periodo gennaio-settembre al +0,7 per cento. Pechino ha ritrovato la sua fase espansiva, dunque, mentre il resto del mondo continua a gestire la seconda ondata di contagi da Coronavirus.

È il risultato che il governo del presidente Xi Jinping voleva ottenere a tutti i costi, proprio per via del profondo significato geopolitico che ha la vittoria della Cina sulla pandemia, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, oggi più che mai in fase di instabilità. Perché, come sottolineato dai funzionari cinesi, la ripartenza economica del Dragone è direttamente collegata al sistema di contenimento del virus. Nonostante la sostanziale «sospensione» del modello economico globalizzato dovuto al diffondersi del virus, la Cina può contare sulla sua produzione industriale e su una popolazione di quasi 1,4 miliardi di persone, ed è proprio su questo asset che si è concentrata la strategia di Pechino.

Una volta riconosciuta l’epidemia, quando ormai il virus era fuori dai confini nazionali, i funzionari cinesi hanno avuto due ossessioni: l’azzeramento dei contagi e quindi la fine dell’emergenza sanitaria. Per almeno due ragioni. Il patto sociale che lega la popolazione cinese e il Partito comunista, subito dopo la strage di piazza Tiananmen, riguarda la sicurezza economica, ottenuta in cambio di un controllo sociale autoritario. Ma questo patto salta ogni volta che c’è di mezzo un’emergenza sanitaria: il controllo della popolazione non funziona se il governo non è in grado di mettere in sicurezza i cittadini, o peggio ancora di nascondergli la verità. Lo dimostrano le proteste che ci furono a seguito dell’epidemia di Sars e dopo lo scandalo del latte contaminato dieci anni fa, per fare due esempi. Da una parte proteggere a tutti i costi i cittadini significa non esporsi a possibili critiche, o peggio ancora proteste, ma dall’altra vuol dire anche far ripartire l’economia: il Partito comunista è riuscito a far uscire dalla povertà 800 milioni di persone sin dagli anni Ottanta, ma quell’equilibrio è ancora precario.

Per raggiungere l’obiettivo dei contagi zero il governo di Pechino ha a disposizione la tecnologia più avanzata del mondo e la mobilitazione di massa tipica dei paesi asiatici, che è ancora più forte in Cina, dove la società civile in caso di emergenza contribuisce al bene collettivo. Ma a favorire il governo di Xi c’è soprattutto l’assenza di un reale confronto con l’opinione pubblica: può fare, quindi, quello che ritiene più giusto senza dibattito. Secondo una lunga inchiesta del «Financial Times», che è partito da Wuhan, l’epicentro dell’epidemia, per cercare di analizzare che cosa è andato storto, i dati sui contagi cinesi difficilmente si avvicinano alla realtà: il governo a oggi dichiara più di 85 mila infezioni e 2752 decessi, ma tra gennaio e febbraio, quando quasi tutte le metropoli cinesi erano sottoposte a durissimi lockdown, molti infettati non venivano registrati.

«I lockdown sono impopolari ovunque, anche in Cina», ha scritto sul «New York Review of Books» Ian Johnson, scrittore e docente che vive a Pechino. «Tuttavia, la leadership di Xi Jinping ha ascoltato gli esperti e ha deciso che il blocco era necessario, probabilmente facendo tesoro dell’esperienza dell’epidemia di Sars del 2003 e calcolando che avrebbero guadagnato favore politico se avesse protetto con successo i cittadini da una nuova malattia mortale.

Si è rivelata una strategia intelligente, soprattutto dopo aver chiamato a fare da volto alla rigida politica del governo un veterano della Sanità pubblica come Zhong Nanshan. Come Anthony Fauci negli Stati Uniti, Zhong è una figura credibile, perché è stato coinvolto in prima persona nella lotta contro l’epidemia di Sars. A differenza di Fauci, Zhong ha ricevuto sostegno politico e pochi hanno dubitato dei suoi consigli sul Covid-19». La scelta di affidarsi a scienziati capaci ha pagato, e anche se a Wuhan ci sono state molte polemiche sul trattamento dei cittadini (il libro della scrittrice cinese Fang Fang, Wuhan – Diari da una città chiusa, molto critico nei confronti delle autorità locali, lo dimostra) e ancora oggi parte della popolazione è spaventata, insicura, ma gran parte delle persone è convinta che il governo di Pechino sia riuscito a sistemare le cose.

Un paio di settimane fa dodici persone sono state trovate positive al nuovo Coronavirus nella città portuale di Qingdao, nella provincia di Shandong. Un nuovo focolaio improvviso nato da trasmissioni interne, quindi non importato dall’estero. La macchina della sicurezza sanitaria cinese si è subito messa in moto: il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Qingdao ha annunciato il test di massa per i quasi dieci milioni di abitanti della metropoli, che sono stati eseguiti in circa cinque giorni. Per farlo, hanno usato un metodo per lotti: si analizzano dieci campioni per volta, e se uno risulta positivo tutti e dieci i soggetti sono sottoposti alla quarantena e vengono testate individualmente.

La capacità di test di massa della Cina è sicuramente un vantaggio, ed è efficiente, ma il metodo specifico è messo in dubbio da molti scienziati perché rischia di perdersi per strada diversi positivi. A una settimana dalla scoperta del focolaio di Qingdao, inoltre, le autorità locali sono riuscite a risalire ai primi due casi: due lavoratori portuali sono risultati positivi il 24 settembre scorso e sono stati trasferiti al Qingdao Chest Hospital, ma le stanze non sono state disinfettate correttamente e il focolaio si è generato proprio all’interno del nosocomio. Per questo, la scorsa settimana il direttore della Commissione sanitaria di Qingdao e il presidente del Qingdao Chest Hospital sono stati rimossi dai loro incarichi.

Questo tipo di focolai, circoscritti ma che possono allargarsi molto velocemente se non contenuti per tempo, sono il terrore del governo centrale di Pechino. Perché, mentre riparte la produzione industriale, a trainare la crescita e la normalizzazione cinese c’è soprattutto l’aumento dei consumi interni. Durante la Golden Week, la festa di metà autunno, Pechino ha lasciato che seicento milioni di persone promuovessero il turismo interno viaggiando dentro ai propri confini: le immagini delle persone in visita sulla Muraglia cinese o a piazza Tiananmen, dopo mesi di lockdown, sono servite a offrire, nella propaganda interna ma anche all’estero, l’immagine di una nazione responsabile e capace di gestire la crisi. Ma il focolaio di Qingdao rappresenta il rischio, segnalato anche dal-l’Istituto di statistica nel confermare i dati positivi dell’economia: il virus non è scomparso, e potrebbe tornare da un momento all’altro.