Raffica di retate di oppositori politici o presunti tali a Managua. L’ultimo corteo antigovernativo, il 14 ottobre scorso, è stato sciolto prima ancora che si radunasse. Una trentina di persone, quasi tutti studenti universitari, sono state arrestate mentre camminavano per strada.
Sarà reato d’ora in poi scendere in piazza contro il governo in Nicaragua. Arresto immediato per chiunque organizzi manifestazioni di protesta.
Era questa una delle misure repressive in vigore durante il somozismo, la quarantennale dittatura sconfitta dalla rivoluzione sandinista guidata da Daniel Ortega che fu a capo del Paese centroamericano dal 1985 al 1990. Ed è la misura che lo stesso Ortega, oggi settantaduenne – eletto alla fine del 2006 e da allora mai allontanatosi dal potere che amministra da tempo come un affare di famiglia dopo aver piazzato nei posti chiave del governo solo parenti stretti – ha appena introdotto per cercare di frenare un movimento sociale molto esteso contro il suo regime.
L’ondata di proteste, partita dalle università in aprile, sta coinvolgendo ormai buona parte della popolazione. Decisivo per l’estendersi del movimento è stato lo schierarsi a fianco degli studenti della Chiesa cattolica, molto influente nel Paese e restata invece per molto tempo in silenzioso temporeggiare di fronte ad Ortega, dal quale ha ottenuto un fondamentale sostegno per una legge ferocemente contraria all’aborto, più restrittiva di quella varata in Cile sotto la dittatura di Pinochet.
L’opposizione attuale della Chiesa cattolica è l’elemento che più preoccupa il regime, tanto che Ortega il 19 luglio scorso, commemorando la rivoluzione sandinista, ha accusato i vertici religiosi locali di essere parte di un complotto contro di lui e di nascondere degli arsenali nelle diocesi.
L’introduzione del divieto assoluto di proteste è stata inusualmente annunciata da un comunicato della polizia inviato a tutti i corrispondenti stranieri a Managua dalla moglie di Ortega, Rosario Murillo, nella sua veste di vicepresidente del Nicaragua. La «primera dama» e numero due del regime è una ex poetessa con una passione per lo spiritualismo esoterico, ha inclinazioni assai poco democratiche in politica e ha dimostrato negli anni di avere una grande e crescente influenza su Ortega che, per dirne una, convinto da lei della magica potenza del color fuxia nel contrastare i malefici, ha lasciato il rosso e nero della bandiera sandinista e avvolto di fuxia le sue campagne elettorali: muri, cartelloni, maglie, bandiere.
Nel documento d’annuncio del divieto di manifestare si legge: «La polizia nazionale avvisa che di fronte a qualsiasi alterazione e/o minaccia alla tranquillità, al lavoro, alla vita e ai diritti delle persone, delle famiglie e delle comunità, saranno considerati responsabili e risponderanno di ciò di fronte alla giustizia gli organizzatori di queste riunioni illegali causa di criminali attività di delinquenza».
Che gli ex sandinisti una volta tornati al governo avrebbero ridotto molto i margini di libertà nel Paese è stato chiaro da subito dopo la prima rielezione di Ortega, riuscito poi a farsi rinnovare il mandato altre due volte.
Un movimento organizzato contro il governo, però, ha preso piede solo negli ultimi mesi, con il dilagare delle proteste contro «el somozismo de vuelta», come lo chiamano gli studenti insorti, ossia il ritorno del somozismo per mano dell’ex capo della rivoluzione che lo sconfisse.
Decine di migliaia di nicaraguensi si sono riversati nelle strade delle principali città, non solo a Managua, chiedendo «libertà e giustizia» e l’abolizione di misure economiche giudicate troppo penalizzanti per i più poveri. Il Nicaragua degli ultimi dieci anni è stato infatti governato, su esempio cinese, da una mescolanza di autoritarismo in politica e liberismo spinto in economia.
La scintilla da cui hanno preso il via le mobilitazioni è stato il rifiuto di una riforma previdenziale che prevedeva l’aumento dei versamenti dovuti da lavoratori e datori di lavoro all’Istituto Nicaraguense di Sicurezza Sociale, prelevandoli direttamente dalle loro buste paga, e imponeva una tassa del 5% sulle pensioni. La repressione è stata da subito brutale. Un quindicenne, Alvaro Conrado, è stato ucciso da un proiettile alla gola. Il ministro della Salute ha pubblicamente richiesto che non fosse soccorso in un ospedale pubblico. Chiusi d’imperio due canali televisivi indipendenti e quello della Conferencia episcopale nicaraguense. Le proteste invece di scemare si sono moltiplicate, la riforma è stata ritirata, ma l’esercito è stato mandato a presidiare tutti i principali centri urbani.
Secondo la Commissione interamericana dei diritti umani sono state uccise da aprile più di trecento persone. Secondo l’Associazione nicaraguense per i diritti umani (Anpdh), che raggruppa varie organizzazioni di base locali, i morti sarebbero invece 512, almeno 1200 persone risulterebbero scomparse e oltre 4000 ferite. Le persone scomparse, secondo il segretario esecutivo dell’Anpdh, Álvaro Leiva Sánchez, intervistato dal quotidiano indipendente «La Prensa», sono state sequestrate.
Il climo politico s’è molto appesantito da fine settembre, dopo l’uccisione in piazza di un sedicenne, Matt Andrés Romero. I medici che lo hanno soccorso presso l’Ospedale tedesco-nicaraguense hanno detto che il corpo del ragazzo presentava gravi ferite da arma da fuoco. La loro testimonianza non era scontata. Nei mesi scorsi sono stati licenziati dagli ospedali pubblici tutti i medici identificati come coloro che non si sono rifiutati di soccorrere i manifestanti arrivati feriti al pronto soccorso. Anche per questa ragione il sedicenne ucciso è diventato un simbolo della rivolta.
La polizia nazionale sostiene che sia stato ucciso dopo essere capitato inavvertitamente nel mezzo di una sparatoria fra agenti e dimostranti, versione smentita da tutti i presenti che raccontano di un attacco deliberato e a bruciapelo. I dimostranti hanno dichiarato di essere stati attaccati dalla polizia nazionale e da elementi paramilitari nel quartiere «America 3» della capitale.
Negli ultimi giorni è stato arrestato dalla polizia il giornalista Carl David Goette-Luciak, di doppia cittadinanza austriaca e statunitense. Lo ha denunciato, sulla sua pagina Facebook, Azucena Castillo, direttrice di Radio La Ciudadana una delle emittenti dell’opposizione. Goette Luciak stava seguendo la crisi nicaraguense per il giornale britannico «The Guardian».
Quasi tutti gli ex leader del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale hanno prese le distanze ormai da tempo da Ortega, lo definiscono «un despota» e tentano di distinguere dalla sua persona quel che resta del sandinismo e della lotta ai contras, la guerriglia controrivoluzionaria che imperversò per buona parte degli anni Ottanta. L’ex ministro della cultura del Nicaragua sandinista, il teologo della liberazione Ernesto Cardenal – che si scontrò apertamente con Papa Giovanni Paolo II respingendo l’ordine di dimettersi dal governo – ha recentemente sfidato Ortega definendo il suo governo «una dittatura».
Il regime ignora le critiche e ha addirittura espulso dal Paese la missione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. La decisione è arrivata due giorni dopo la diffusione di un rapporto che accusa apertamente Managua di «repressione e rappresaglie». L’Onu descrive «la violenza e l’impunità che hanno messo in evidenza la fragilità delle istituzioni del Paese e dello stato di diritto, e hanno generato un contesto di paura e sfiducia» e denuncia «l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia, che a volte si è trasformato in esecuzioni extragiudiziarie, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e generalizzate, torture e maltrattamenti, violazioni dei diritti alla libertà di opinione, espressione e riunione pacifica».