Picconata di Trump al nucleare iraniano

Usa-Iran – L’annuncio-shock della decertificazione dell’accordo negoziato da Obama nel 2015 si inserisce in uno schema classico in cui il presidente Usa volta le spalle al multilateralismo
/ 23.10.2017
di Federico Rampini

Sull’Iran il presidente americano è davvero solo contro tutti. Non solo all’estero, anche in casa propria. Tanto che bisogna chiedersi se davvero l’accordo nucleare sia defunto, oppure se ci troviamo ancora una volta di fronte ad un annuncio-shock che non corrisponde ad una svolta reale. Del resto lo stesso Donald Trump spesso si vanta di usare nell’azione di governo la tattica negoziale sperimentata nel mondo degli affari: sparare alto, pretendere il massimo, per strappare un accordo vantaggioso. Un’ipotesi che lui stesso estende allo scenario iraniano: se i termini dell’accordo con Teheran dovessero subire dei miglioramenti, lui potrebbe anche accettarlo.

È il venerdì 13 ottobre che Trump sferra la prima picconata ufficiale all’accordo con l’Iran sul nucleare. Lo «de-certifica», cioè manda a dire al Congresso di Washington che Teheran tradisce quell’accordo. Primo passo, forse, verso la denuncia finale del patto. Oltre a Cina e Russia, neppure gli alleati europei lo seguono su questa strada. Ma anche a Washington il presidente viene contraddetto, corretto, attenuato dalle «interpretazioni» dei suoi stessi collaboratori. I suoi consiglieri più autorevoli, i generali MacMaster (capo del National Security Council) e Mattis (segretario alla Difesa) fino all’ultimo avevano cercato di dissuaderlo, insieme col segretario di Stato Rex Tillerson che appare ormai come una specie di «opposizione interna» al suo presidente. Tillerson arriva al punto di affermare, nei giorni successivi alla «de-certificazione», che il vero obiettivo del presidente è di salvare il patto con l’Iran.

Non è che al Pentagono siano entusiasti delle clausole negoziate da Barack Obama fino alla firma del 2015, però anche i falchi nell’ambiente militare americano pensano che l’assenza di un accordo crei uno scenario peggiore. Dopo la Corea del Nord, ora anche il regime degli ayatollah potrebbe riprendere la costruzione della bomba atomica. Per la stessa ragione, la picconata di Trump può ricevere un’accoglienza fredda al Congresso. L’ultima parola spetta al Senato, per stracciare definitivamente l’accordo e ripristinare sanzioni anti-nucleare (da non confondersi con le altre sanzioni mirate al programma missilistico, al sostegno degli Hezbollah ecc., già inasprite dalla Casa Bianca). Diversi senatori repubblicani da Bob Corker a John McCain sono allarmati dalla politica estera di questo presidente. Se non raggiunge la maggioranza qualificata di 60 senatori su 100, la «de-certificazione» di Trump resta lettera morta e non succede nulla: l’America rimane dentro l’accordo nucleare.

Nel frattempo comunque questo gesto ha le sue ripercussioni internazionali. Conferma, se ce ne fosse bisogno, che l’America First di Trump procede lungo l’ispirazione sovranista, voltando le spalle alla comunità internazionale, al multilateralismo, ai grandi patti collettivi. In Medio Oriente fa felici i due unici alleati a cui Trump tiene davvero: Israele e Arabia saudita, ostili fin dall’inizio al disgelo con Teheran. Gli va dato atto quantomeno di una virtù, la coerenza, visto che Trump sta mantenendo una promessa urlata più volte nei comizi elettorali.

Per non cadere nell’amnesìa va ricordato che alcune critiche all’Iran sono sacrosante e peraltro venivano condivise dall’Amministrazione Obama. Gli ayatollah oltre a mantenere una teocrazia autoritaria a casa propria, hanno fatto varie altre nefandezze in giro per il mondo: per citare la più recente basta ricordare che sono insieme alla Russia il vero pilastro del regime di Assad in Siria, ne hanno consentito tutte le atrocità. Obama lo sapeva e lo denunciava. La sua era una scommessa proiettata sul lungo termine: pensava che l’accordo sul nucleare, oltre a guadagnare un decennio congelando la costruzione dell’atomica, poteva rafforzare i moderati come Rohani in Iran, quindi favorire il dialogo e la cooperazione. Al termine, nello scenario più ottimista di Obama, ci sarebbe stato il ritorno dell’Iran in mezzo a noi come una nazione «normale», interessata a espandere i suoi rapporti con l’Occidente, con comportamenti meno ostili e destabilizzanti. Era un po’ la scommessa parallela a quella fatta dallo stesso Obama a Cuba: prendiamo atto che l’embargo non ha funzionato, proviamo a migliorare i nostri rapporti, sperando che alla fine di questo percorso arrivi anche un progresso nei diritti umani.

Trump semmai ha in mente lo schema reaganiano della Guerra fredda: vince chi ha più muscoli, e porta l’avversario fino al collasso. Bisogna alzare la posta, pretendere concessioni estreme, sfiancare l’interlocutore con una pressione insostenibile (vedi le nuove sanzioni economiche su tutta la componente dell’economia iraniana controllata dalle Guardie rivoluzionarie). Ma è dubbio che lo schema reaganiano sia ripetibile in confronti asimmetrici con potenze regionali, ben diversi dalla sfida Usa-Urss di allora. Dal 5 al 10 novembre Trump visiterà per la prima volta Tokyo Seul e Pechino. Tema numero uno, la Corea del Nord. Non è affatto chiaro che la scelta fatta sull’Iran possa indurre Kim Jong-un a un ripensamento. A rigor di logica, vale il contrario: è la prova che con questa America non si fanno accordi perché poi li straccia a suo piacimento.

Tre conclusioni provvisorie.

Primo, molte richieste di Trump all’Iran sono più che legittime: sacrosante. La cessazione del sostegno a milizie violente che seminano terrore in varie zone del Medio Oriente. L’arresto del programma di sviluppo dei missili balistici di lunga gittata, minaccia oggettiva rivolta soprattutto contro Israele e Arabia saudita. Bisogna però che l’Iran sia motivato a fare queste concessioni, dalla prospettiva di una vera normalizzazione nei rapporti con l’America. Sicurezza contro sicurezza: per smettere di minacciare gli alleati dell’America (Israele e Arabia), Teheran deve sentirsi tutelata, non accerchiata. Nelle cose che va dicendo Trump non c’è l’ombra di un discorso positivo che possa invogliare gli iraniani. Come accade in tanti altri settori, questo presidente s’illude di governare per slogan, come fosse ancora in campagna elettorale. Alcuni dei suoi slogan possono perfino essere condivisibili, ma l’attuazione è inesistente.

Secondo punto. Il gesto a effetto della «de-certificazione», s’inserisce in uno schema ormai classico in cui Trump volta le spalle al multilateralismo. Sull’Iran è una fuga in avanti che ignora gli altri firmatari: Russia, Cina, Germania, Inghilterra e Francia. Come non esistessero. C’è un filo comune che unisce questo annuncio con altri: la rinuncia al trattato di libero scambio con l’Asia-Pacifico (Tpp), l’uscita dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, l’abbandono dell’Unesco, il taglio dei contributi all’Onu. Qualcosa di simile potrebbe accadere con il Nafta, il mercato unico nordamericano: Trump sta rinegoziando le clausole di quell’accordo che risale all’inizio degli anni Novanta, ma se non ottiene quel che vuole è pronto ad abbandonarlo. Conferma una spiccata ostilità verso ogni organizzazione sovranazionale e verso i principi del multilateralismo. La sua campagna elettorale di un anno fa con lo slogan «America First» esprimeva la profonda diffidenza del popolo di destra verso ogni cessione di sovranità, l’aspirazione a tornare pienamente padroni del proprio destino, una rivalutazione del nazionalismo. In questo senso la coerenza è dalla sua parte, e lo zoccolo duro della sua base elettorale di questo è riconoscente.

Terzo punto. A prescindere dal giudizio che diamo sui singoli atti di Trump, siamo di fronte ad una discontinuità totale nella politica estera americana, che semina incertezza nel resto del mondo. Alleati e avversari sono costretti a rivedere di continuo gli scenari geopolitici mondiali. In realtà questo non è un tratto distinitivo del solo Trump. Se risaliamo indietro possiamo osservare che ormai l’alternanza politica americana, per esempio il passaggio da George Bush a Barack Obama, spesso provoca sterzate a 180 gradi nelle grandi scelte internazionali: basti pensare al cambiamento climatico sul quale Bush era negazionista quanto Trump. Il mondo si sta abituando al fatto che l’America può rinnegare se stessa ogni quattro o ogni otto anni. È un suo diritto, naturalmente. Però questo crea, oltre all’incertezza, anche un evidente vuoto di leadership. Un paese che oscilla in modo così brutale da un’Amministrazione all’altra, non può fare programmi di lungo termine. Altri sì: per esempio la Cina. Il vuoto di leadership qualcuno finisce per riempirlo.